“Vanità delle vanità: tutto è vanità”. Con tali parole del Qoèlet si apre la liturgia di questa domenica, diciottesima del tempo ordinario.
L’autore pare ricordare, all’umanità orientata ai beni da possedere, che la vita diviene e non c’è niente che possa fermarla per godere delle cose possedute.
Quello di coniugare la vita con il verbo “avere” è il sottile inganno di ogni tempo, ed è pertanto che le relazioni organizzate sul possedere l’altro finiscono con lo spegnersi; così come i beni sempre più lussuosi man mano vengono a cristallizzare l’animo umano, bisognoso piuttosto di bellezza che di perfezione appariscente.
È per questo che una casa dove c’è la libertà del gioco seppure nella precarietà degli ambienti, o l’odore della cucina benché povera, rallegra più di una delle ville faraoniche dei boss di Casal di Principe o dei lussuosi yacht assunti a status symbol dai vip o dai magnati delle multinazionali.
La gioia del cuore o la commozione suscitata dalla bellezza è ben altra cosa e, soprattutto, scaturisce dalla relazione con l’altro e con il creato fondata sulla reciprocità, il rispetto, la contemplazione.
Comprendiamo come Qoèlet non risponda ai modelli del mercato dei consumi, anzi sembrerebbe un permacultore che ha un criterio etico nell’uso della terra che lo ospita.
La bramosia dell’uomo contemporaneo non fa che accrescere una voragine interiore, proprio perché lo priva dei rapporti disinteressati in cui manca la ricerca di un utile. È così che il rapporto con lo spazio ed il tempo si sovverte, viene meno la sorpresa e la ricerca è inficiata dall’ansioso calcolo produttivo.
Gesù, nella pagina del Vangelo (Lc 12, 13-21), approfondisce ulteriormente la questione raccontando la parabola dell’uomo che, avendo un raccolto sovrabbondante, pensò bene di demolire i suoi magazzini per costruirne altri più grandi ed ivi stipare i suoi beni, per poi dire a se stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti”.
È una mentalità precisamente antievangelica quella dell’individuo che vive per se stesso. In questa espressione troviamo quanto il desiderio possa essere ridotto a spinta compulsiva. L’uomo è desiderio e questo va custodito nella sua autenticità, è questa la restituzione fatta da Gesù all’umanità di tutti i tempi. Il riposo, infatti, biblicamente è celebrazione del dimorare nella ‘terra promessa’, cioè la terra donata da Dio e di cui il popolo è erede e non proprietario.
Sul concetto di proprietà oggi siamo parecchio confusi, ed è così che per lo stato di diritto una famiglia deve finire per strada, senza avere diritto ad un tetto quando viene meno uno stipendio. Nella terra che abito, così ragionando, la “legge” interviene con sfratti giudiziari, la successiva sottrazione dei minori, fino all’abbrutimento di persone che fino a qualche anno prima gioivano dell’amore sincero condiviso nel loro contesto “povero”.
Il riposo, ancora, è espressione della relazione con Dio. L’apertura dei centri commerciali, nuove cattedrali dei consumi, la domenica è uno degli esempi che ci fa comprendere come alla persona sia stata strappata la capacità di celebrare il riposo. Il lavoro ha il sopravvento, intere famiglie non si incontrano più perché la domenica a turni alterni si lavora, o per chi gode del giorno di ferie la piazza commerciale diventa il luogo per distrarsi e non stare con l’altro!
Lo stesso vale per il cibo, il ricco della parabola ne ha fatto un idolo ansiogeno, per l’uomo di Dio è “Pane quotidiano”, frutto del lavoro di ogni giorno, della presenza di Dio nel proprio quotidiano, e non del calcolo di tutta un’intera vita.
Il bere per la Scrittura è il segno della festa, della gioia nel condividere con l’altro, ma oggi pare il modo per creare nuovi stili di vita senza limite che spesso conducono a percorsi di morte. Proprio a Cana di Galilea Gesù restituì ad una coppia di sposi la gioia del vino e cioè dell’amore che li stava portando a celebrare quel matrimonio. Loro avevano costruito tutto senza preoccuparsi della relazione con Dio, le giare delle abluzioni prima della preghiera, infatti, erano vuote e pensavano, magari, che l’uno sarebbe bastato a se stesso. Potremmo riconoscervi l’illusione di molte coppie che continuano a ferirsi perché non ammettono la reciproca fragilità, senza tenere conto del loro bisogno di Dio.
La gioia del cuore, questa non va commentata, è il frutto di un cammino che volge verso una meta, ecco l’umanità del nostro tempo ha bisogno di ridare nome alla meta che orienta il viaggio della propria vita. Tutto il resto è vanità!