La questione della meta che orienta il cammino dell’uomo è di fondamentale importanza per comprendere la cultura contemporanea. Se da un lato pare che l’umanità corra verso una direzione dall’altro si evince che sta fuggendo da qualcosa e, sappiamo bene, la paura non è mai maestra di vita!
Si assiste, infatti, ad un fenomeno elusivo della meta ultima, come ad esorcizzare la consapevolezza della morte che, inequivocabilmente, si rivela quale dato certo della vita. Questa fuga determina uno stato ansiogeno che confonde il fine con la fine, il compimento con la perdita di tutto.
A complicare il senso delle cose, inoltre, si aggiunge la distorta percezione del tempo in quanto l’umanità sembra fermarsi al presente, priva di prospettiva e di memoria, quasi timorosa di osare andare oltre.
Anche gli ideali di una politica a difesa dei valori di giustizia sono stati soppiantati dalle parole vuote di molti che cercano di convincere rispetto alle proprie visioni di uomo. Proprio in questi giorni alla Camera si discute sul testo per la legalizzazione delle droghe leggere additandolo quale difesa della libertà di autodeterminarsi. Simili interventi, così come è stato per la legalizzazione del gioco d’azzardo, finiscono con l’assecondare una società sempre più dipendente, priva di autonomia e sempre più soggiogata agli impulsi del momento: alla brama di avere “tutto e subito”, quale farmaco lenitivo del proprio mal d’essere.
Viene meno la prospettiva storica e la continuità di vita viene sacrificata per lasciare spazio all’eccitazione del momento presente, ciascuno cerca di vivere il tutto ora, non facendo caso alle conseguenze delle proprie azioni.
Troviamo, così, una sorta di intermittenza del cuore che dà un assetto sempre più instabile ai legami familiari e al progetto di vita personale. La stessa sindrome da Peter Pan è il frutto di questa resa al presente, segnata dal rifiuto del passaggio alla vita adulta ed dal rifugio nel comportamento infantile.
La Parola di questa domenica, diciannovesima del Tempo ordinario, viene ad interpellare proprio questo modo di stare nelle cose della vita, rilanciando il senso dell’attesa e della prospettiva escatologica.
Dapprima troviamo Abramo (Ebrei 11) che si fida di una parola e si mette in cammino lasciando le sicurezze della terra conosciuta. Non si tratta della partenza di un uomo che si affida alla sensazione del momento ma del coraggio di ascolta e si mette in cammino fidandosi dell’intuizione della meta.
È necessario sbilanciarsi per vivere l’esperienza di fede: fino a quando l’uomo rimarrà ancorato a se stesso considererà follia la perdita per il bene dell’altro.
Quando il giovane Francesco d’Assisi lasciò tutto e soprattutto inizio a condividere i suoi averi con i più poveri, il padre, Bernardone, lo perseguitò per la sua scelta. Lui ricco commerciante aveva un’esperienza di vita ben diversa fondata sul guadagno per sentirsi grande e potente. Aveva vergogna del figlio perché, oltretutto, gli stava facendo perdere uno degli investimenti più grandi della sua vita: vedere un giorno suo figlio, divenuto cavaliere, arricchirsi più del padre!
Ecco la prospettiva dell’uomo materialista: l’apertura al futuro è pensata in termini di grandezza e di dominio trasmesso ai propri posteri. È così che la stessa celebrazione del tempo, della festa, rimane legata ai doni acquisiti o alla dote ottenuta, ma è priva di relazione.
La pagina del Vangelo (Lc 12, 32-48), esplicita, ulteriormente, quanto l’uomo sia caratterizzato da quel che attende: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito».
È un’immagine dinamica che esprime la precarietà dell’uomo di Dio. Una sintesi evangelica che rievoca lo stato esodale del cristiano, in cammino verso la meta, con i fianchi cinti per servire oltreché per andare.
Non è una corsa frenetica quella che ci viene proposta ma un procedere insieme agli altri, mai da soli, capaci di condividere del proprio e caricarsi del compagno di viaggio. È così che il tempo presente si rivela occasione per nutrirsi e nutrire, è lì che si fa esperienza dell’eternità!
Non è nemmeno una sorta di perfezionismo ad essere indicato quale via spirituale, il perfezionista vive il culto di se stesso e non si apre all’eternità ma si fa alto e giusto innanzi agli altri.
Francesco d’Assisi, ancora, ricorda della sua prima esperienza di Dio attraverso l’incontro con i lebbrosi. Lui, dirà a riguardo che era “nei peccati” e cioè cercava di procurarsi un nome, uno status di riconoscimento, diventando cavaliere. Non si tratta di un tempo propizio (nel senso di favorevole per le condizioni esterne) anzi potremmo dire che era invaghito di un ideale alquanto terreno, eppure proprio in quel tempo si lasciò incontrare. Avrebbe potuto rifiutare il lebbroso così come tante altre volte, invece gli si avvicino abbracciandolo, e quel che gli sembrava amaro gli fu cambiato “in dolcezza d’animo e di corpo”.
È il gusto della vita a cambiare quando si accetta di perdere una impostazione secondo il business plan promosso dalla società dei consumi. Francesco sperimenta un totale giro di boa, quel che era amaro, e presumibilmente dettato dalle paure per la salvaguardia della sua vita, si mutò in dolcezza.
Cambia il modo di accostarsi alle questioni della vita a seconda della meta per cui si vive. Nel Vangelo, inoltre, Gesù narra di un servo che percependosi custode trascorre il suo tempo condividendo in modo che altri possano nutrire la propria esistenza. È la vita eucaristica del cristiano che si nutre per donarsi sapendo che appartiene ad un Corpo più grande.
Diversa è l’esperienza del servo che si appropria di tutto e percuote gli altri escludendoli dalla mensa, è l’uomo diviso in se stesso cioè che muore perché non si spezza per l’altro.
Il seme per germogliare ha bisogno di luce ma se rimane al buio, senza attingere alla fonte, rischia di implodere sciupando la propria vita.