Ma la Sapienza da dove si trae? (2)

by Mauro 27. febbraio 2013 13:05

  Continua lo spazio dedicato al libro di Giobbe che ancora oggi questiona il genere umano. L’uomo può scoprire ed avere intelligenza delle cose, anche le più preziose eppure della Sapienza, dice il testo,  “l’uomo non conosce il suo prezzo”.
      Infatti è possibile dare un prezzo a qualcosa quando la si può misurare, quando si può calcolare la fatica che occorre per ottenerla, ma della Sapienza non è così. Non è calcolabile il modo di ottenerla, né misurabile la sua consistenza.
      Per l’antico Israele la Sapienza è la capacità di stare nel mondo, cioè l’attitudine a vivere bene, a servirsi delle cose del mondo scoprendo e costruendo per affrontare le difficoltà, quindi anche le scoperte e la “tecnologia” farebbero parte di questa sapienza. L’origine di questa capacità, dice Giobbe, sta nel timore di Dio: Il timore del Signore è il principio della sapienza.
      Il sentirsi immersi nel mistero cioè cogliere la propria esistenza all’interno del mistero di Dio. Non è da intendersi con un’accezione fideistica, come se l’uomo passivamente dovesse affidarsi a Dio senza comprendere il senso delle cose, piuttosto significa aprirsi ad un costante dialogo con Lui per riconoscerne la presenza nelle cose della vita.
Giobbe viene a testimoniare un periodo di crisi per Israele proprio perché la familiarità con Dio non equivale ad una vita scevra da difficoltà, Israele da lì a poco vivrà la dura esperienza dell’esilio.
      Viene messo in dubbio (1, 11) che la sapienza di Giobbe sia frutto della relazione di intimità con Dio, si dice che è piuttosto una relazione interessata a stare bene, come se in realtà Giobbe pensasse più a se stesso che al suo rapporto con Dio.
      Da lì Giobbe sperimenta il dolore fisico e, ancor più, vede venire meno i suoi averi e le sue relazioni, vede il fallimento del suo successo. Apparentemente il rapporto con Dio non ha retribuzione alcuna come invece credeva un certo modo di intendere la sapienza. E’ il dilemma di tutti i tempi, come mai io che sono credente, che vivo la relazione con Dio non sono salvato dalle intemperie della vita?
      Giobbe mostra un rapporto che nonostante le sofferenze non viene meno. Piuttosto al capitolo 3 alza il suo grido,  quello di un uomo che è martoriato dal dolore e a questo profondo lamento. A questa esperienza della propria fragilità fa seguito il “consiglio” dell’amico Elifaz che invita Giobbe a rassegnarsi al male che sopraggiunge nella propria vita!
Elifaz propone una sorta di passiva rassegnazione ai gravami della vita, un modo per raggiungere una sorta di atarassia catartica. È il consiglio facile di chi sta a vedere il travaglio altrui e “consiglia ciò che è bene” piuttosto che avvicinarsi all’altro. Chiaramente Giobbe reagisce, sentendosi incompreso, avrebbe desiderato la compassione almeno del suo amico, e invece lui usa le parole per distanziarsi dal suo dolore.
     Giobbe reagisce chiedendo di volgersi a lui (7, 28), di guardarlo in faccia e riconoscere il dramma dell’uomo, di ogni uomo. E a quel punto si rivolge a Dio, mostrandogli la sua sofferenza come a provocarlo. Di fatto Giobbe non si rassegna alla definizione data da Elifaz!
     Dio non può volere il male, Lui non resta indifferente al male dell’uomo. È questa la sua preghiera, non si rende conto del perché di tanta sofferenza eppure sa che Dio sta guardando non lo ha abbandonato.
     Continua…

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