Alla sera della vita saremo giudicati sull'Amore

by Mauro 9. aprile 2012 10:18

In questi giorni di Pasqua mi risuona in modo speciale l’affermazione lasciataci dal mistico carmelitano Giovanni della Croce: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore. 
Non è forse questo l’unico orizzonte possa dare senso all’esistenza di ciascuno? Se non l’amore, quale altro movente potrà mai giustificare il vivere umano? A riguardo mi pare che il mal-essere di ogni tempo sia prevalentemente imputabile ad una diverso orizzonte di vita: quello che sacrifica la relazione imbrigliando l’essere umano nella logica ego-latrica e nella conseguente pretesa di potere sull’altro.
In fondo ogni persona è alla ricerca della felicità, la speranza è anche un’esperienza psicologica che si esprime in questa direzione, la ricerca della “condizione paradisiaca”. Solo che questo paradiso poco lo si conosce, e in realtà non si può trovare ciò che non si sa cercare. Si, prima di muoversi bisognerebbe cogliere verso dove andare, altrimenti la quotidianità potrebbe mutarsi in un vivere vorticoso, privo di reale nutrimento.
Il termine paradiso proviene dalla lingua persiana antica “pardes” e significa “giardino cinto da mura”. È il luogo della custodia, è il luogo protettivo in cui potersi riposare. È di luoghi protettivi che abbiamo bisogno, spazi e tempi di ascolto, di sosta, di riconoscimento reciproco.
La vita inizia proprio con l’uscir fuori dal primario luogo protettivo che è il grembo materno, da lì in poi l’avventura umana richiede un esporsi continuo, un lasciarsi pro-vocare dal mondo circostante per vivere l’interazione con gli altri, l’ambiente, il mondo circostante. È vero che in questa esperienza sovente potremmo dimenticare il bisogno di luoghi protettivi, luoghi di custodia capaci di contenere il proprio vissuto e favorire l’integrazione della propria esperienza all’interno di un sistema di significato.
Il contenimento dato da un rispecchiamento adeguato permette al bambino di formare un proprio sistema di significato e, man mano, una distinzione-confine tra sé e l’altro. Un graduale processo di individuazione-differenziazione è proporzionale ad un buon senso di dipendenza-appartenenenza. Penso che possiamo dare significato all’esistenza se abbiamo luoghi protettivi in cui potercene prendere cura. Diversamente la fuga, come ad esempio nel caso del delirio, diventa il modo protettivo di sopperire alla  mancanza di coerenti sistemi di significato o alla difficoltà a definire il confine del sé. I “deliranti” cioè attribuiscono le conseguenze negative delle loro azioni a cause esterne ma in realtà cercano di proteggersi da profondi sentimenti di disistima, dalla mancanza di scopi, dal senso di solitudine o dalla disperazione.
Ma forse è proprio questo il male dei nostri giorni? Avere perso il senso del confine, il limite che ci custodisce o, ancora,  il luogo in cui poter stare mettendo giù le misure difensive che diversamente ci impongono una continua ipervigilanza?  Proprio l’educazione passa attraverso un’adeguata corrispondenza da parte dei genitori alle richieste del loro bambino/a. “Corrispondenza” non equivale a dire sempre si, i “no” opportunamente dati sono essenziali al contenimento e a far percepire l’infante custodito da un altro. È vero che sovente i divieti vengono recepiti con il pianto, con una sorta di sofferenza ma di fatto proprio questa esperienza diventa luogo di apprendimento.
L’essere umano è chiamato a dare significato alle cose che gli accadono, è proprio il significato attribuito a dare la capacità di attraversare il dolore o di superare un’esperienza difficile della propria vita. Dare dinieghi senza dare spiegazioni è un’esperienza senza senso per un bambino, le regole hanno bisogno di essere collocate in un contesto, in un chiaro sistema di significato capace di dare ragione delle cose. Chiaramente ciò va accordato con la fase di crescita, la ragionevolezza che può trovare un adulto è ben diversa rispetto a quella che può comprendere un bambino.
Di fronte all’esperienza del limite l’essere umano può reagire con un delirio di onnipotenza perché si sente ferito, perché non è. Oppure può rinunziare alla pretesa di costruire un paradiso con le proprie mani, fondato sul proprio ego-entrismo ed aprirsi ad un processo di profonda umanizzazione ove anche la  sofferenza diventa luogo di apprendimento.
Recuperare il valore della relazionalità e dell’interdipendenza diventa un modo per riscoprire il valore della vita ove chi si vive fragile scopre il suo essere profondamente umano, capace di sostenere e di lasciarsi sostenere. Mi torna in mente un’affermazione di Benedetto sedicesimo nella Lettera enciclica sulla speranza cristiana:   “Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo. La scienza può contribuire molto alla umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo ed il mondo, se non viene orientata da forze che si muovono al di fuori di essa… Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore.”

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