Questione di unicità

by Mauro 16. settembre 2018 15:52

   

 

      Dare senso ai propri giorni equivale a percepirsi nella propria unicità e questo significa esprimere una storia inedita e cioè nuova. 

Come è possibile conciliare questo con la sequela propria della fede e cuiè seguire il Maestro che ha già segnato la via? O, ancora, come si fa a percepire questa novità di vita all'interno della monotonia delle giornate che, apparentemente, sembrano tutte uguali?

La domanda è opportuna e per trovare risposta è necessario smontare un'idea di unicità e di originalità legata alle forme o all'esibizione. Il tratto istrionico, casomai, non dice della autenticità di una persona ma della sua stranezza. C'è, piuttosto, una ordinarietà necessaria entro la quale si esprime l'individualità di ciascuno.

Oggi si è confuso il processo di individuazione con l'essere ostinatamente diversi dall'altro fino alla competizione. Tale è l'individualismo che impoverisce l'essere umano e lo separa dagli altri, in quanto ognuno finisce col sentirsi migliore di chi gli sta accanto. È la logica quantitativa che diventa misura delle cose, più ho e più valgo, più accumulo rispetto all'altro e più primeggio su di lui. Ma l'esistenza umana non è questione quantitativa e, così come affermava ieri papa Francesco nella visita alla nostra Città, “nel sudario non ci sono tasche”!

L'individuo, piuttosto, è tale quando si percepisce interiormente in ascolto e capace di una direzione. Questo non equivale ad essere autocentrati, anzi, è l'equivalente opposto. È necessario decentrarsi per andare oltre, per mettersi in cammino e seguire il Maestro.

È dall'ascolto, ci ricorda la lettura di Isaia (50, 5-9) di questa domenica, che inizia il cammino. Ascolta chi entra in relazione con l'altro e smette di stare sintonizzato solo con se stesso. Da questo atteggiamento, continua il testo, è possibile attraversare anche le persecuzioni.

La Scrittura, dunque, rimanda all'ascolto e non alla forza per resistere alle avversità. Ciò perchè non è possibile affrontare le battaglie della vita da soli ma è necessario dare senso alle cose e perciò abbisogniamo di un interlocutore che ci permetta di leggere quel che sta accadendo.

Quanto entriamo in una stanza buia cominciamo ad urtare con tutto quel che ci sta dentro rischiando di cascare per terra, ma non appena entra la luce cominciamo ad orientarci anche se, di fatto, l'arredo è rimasto lì dove era prima.

L'individuo, dunque, è relazionale e per fare esperienza di sé abbisogna del rapporto con gli altri e, dunque, di sentirsi appartenente ad una comunità, ad un contesto che per tutti è vitale. È per ciò che il bisogno di unicità e di appartenenza vanno sempre uniti altrimenti ci sarebbe uno sbilanciamento nel narcisismo autoreferenziale o, al contrario, nella spersonalizzazione simbiotica.

La pagina del Vangelo (Mc 8, 27-35) di oggi, ancora, approfondisce questa prospettiva in quanto rivela come la sequela di Gesù non si fonda su un modello da imitare. Il Maestro si china donando la vita e questo significa che il punto di partenza della vita cristiana è l'accoglienza, lo spazio che si da a Dio fidandosi della sua presenza, del dono che fa di sé a ciascuno.

Pietro dovrà abbandonare le sue convinzioni, deporre la spada attraverso la quale rabboniva le sue paure, e mettersi in cammino dietro Gesù, cioè passando per contrarietà e avversità fidandosi della sua Parola, del dono della sua vita.

È lo spostare il baricentro su di un altro che permette di cominciare il cammino e di aprirsi alla relazione. Chi si pensa capace di generare senza accogliere è semplicemente sterile, incapace di dono.

È così che molti pur mettendo alla vita figli rimangono sterili e altri, invece, anche se ritenuti poveri o impotenti sono ricchi e fecondi perchè capaci d'amore. Si sono scoperti profondamente amati da Dio e la loro vita sovrabbonda senza riserve. 

 

 

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