Prossimo è Amare

by Mauro 13. gennaio 2013 21:10

   Ho appena condiviso un incontro con la fraternità francescana di  San Giovanni Gemini, in cui i terziari mi hanno chiesto di leggere la fede cristiana alla luce della Lettera Enciclica Deus Caritas Est.
        Una Lettera che tratta dell’Amore mi sembra quanto di più appropriato per cogliere le fondamenta su cui poggia la fede cristiana. Ma prima di questo approfondimento sono partito da un riferimento che mi pare alquanto prezioso: il messaggio dato da Giovanni Paolo II durante la giornata mondiale per la pace del 2002. Il Messaggio portava il titolo: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”.
        Giovanni Paolo II con questo titolo ha coniugato la pace e la giustizia con il perdono. Il perdono non è un “di più” rispetto alla giustizia, per essere giusti bisogna saper perdonare, senza il perdono non può esservi giustizia piena. Al pari si può dire della pace nel senso dello Shalom ebraico (come commentavamo nel post del 31 dicembre 2012) in cui non viene intesa semplicemente la tregua fra due guerre.
      Questo atteggiamento, dice il papa nel Messaggio, va tradotto anche nelle istituzioni giuridiche e politiche. La legge deve prevedere anche la possibilità di perdono per quanti hanno sbagliato, è un apporto profetico a quello che è l’iter giudiziario e politico. È questa la proposta cristiana, ecco alcune parole del prezioso messaggio: “… poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali”.
         La prima lettera enciclica di Benedetto XVI, la DEUS CARITAS EST, si pone proprio secondo questa prospettiva, il Papa vuole iniziare il suo ministero esprimendo “l’umanità della fede” (sono sue testuali parole) ed inizia con le seguenti parole che ne delineano tutto il contenuto:
        “« Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza cristiana: «Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto»”. Il pontefice inizia il suo mandato partendo non da chissà quale argomentazione teologica ma dal centro della fede cristiana e proprio secondo questa luce vuole dare connotazione al suo pontificato.
       L’Enciclica risponde a fondamentali bisogni e relativi equivoci del nostro tempo: in primo luogo la verità resa all’amore, la verità racchiusa nella Buona Novella: l’agàpe cristiana non riduce l’eros ma lo guarisce dandogli un orizzonte pieno. Ciò che fa ammalare non è l’eros in sé ma l’egocentrismo in cui viene rinchiuso, finendo col perdere la sua possibilità di coniugare passionalità e dono totale di sé.
       Un secondo aspetto che caratterizza la Lettera Enciclica è la relazione tra i popoli a cui può portare l’amore. Il nostro è un tempo in cui l’umanità rischia nuovamente lo scontro tra nazioni diverse magari legittimato dalla fede religiosa portata ad ideologia. La capacità di dialogo tra i popoli sarà resa possibile dall’amore e non dalla pretesa di potere/esclusività.
      Il terzo tema saliente dell’Enciclica è quello della testimonianza resa dalla Chiesa. Come affermavo nel post precedente, l’esperienza ecclesiale nasce ai piedi della Croce quale dono ultimo e pieno d’Amore. La Comunità non potrà dire se non raccontandosi, ogni predicazione ha il suo inizio nella testimonianza di vita. L’esperienza cristiana non nasce come un’ideale da seguire o un’etica a cui prestare fede, bensì nasce dall’incontro con Cristo Gesù. Un incontro che diventa relazione, tempo di sosta e di nutrimento per poi divenire mandato, separazione in vista di un annunzio.
     Come leggere queste tre dimensioni a partire dalla esperienza di fede? Il credere nasce dal riconoscere l’amore che Dio ha per noi, è da questa esperienza che l’eros può essere intimamente coniugato con l’agàpe, è da questa coscienza che è possibile aprirsi al dialogo con l’altro al di là della precomprensioni, è questa la base della testimonianza di vita.
     In primo luogo bisogna cogliere la ferita che porta l’eros spogliato dell’agàpe. L’eros senza agàpe è pretesa di conquista, è un amore in cui non c’è sacrificio per l’altro e quindi possibilità di donazione. L’essere umano è portato ad essere attivo, a sentirsi artefice e protagonista, a essere qualcuno per l’altro più che a sentirsi riconoscente verso l’altro. In termini di relazione con Dio questo porta a sforzarsi di fare qualcosa per Lui, ad assumere la vita di spirituale come uno sforzo, un impegno per dimostrare a Dio la propria bontà. Anche la tradizionale catechesi cristiana appare sbilanciata secondo questa prospettiva, per cui il punto di partenza non era l’amore “di Dio” ma l’amore “per Dio”!
    1Gv 4, 19 attesta l’esatto contrario e cioè l’essere umano può amare Dio perché prioritariamente si sperimenta amato e riconosciuto da Lui: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo”. E ancora la vs 10 afferma “Dio è amore”. Questa affermazione ci mostra tutta la verità dell’agàpe, Lui è amore perché ama da sempre, ora la creatura non è “da sempre”, l’umanità ha avuto un inizio. Dio è amore perché da sempre ha amato il Figlio e nella pienezza del tempo lo ha donato.
      L’amore allora scaturisce dalla relazione e questa relazione non è in vista di una sempre maggiore appropriazione ma in vista del dono, suo compimento è il dono totale. La creazione trova questa finalità, ciò che esiste è per essere amato, la Creazione è per essere amata, l’umanità è per dono di Dio e continua ad essere cioè a vive pienamente, se continua ad accogliere questo dono. Secondo questo significato l’amore è da intendersi come agàpe, misericordia e al contempo attrazione, eros, per l’altro, passionalità fino al dono totale, gioia propria a motivo della gioia dell’altro. In questa prospettiva comprendiamo come l’agàpe senza eros sarebbe un atto volitivo privo dello slancio passionale, privo di cuore.
    

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