L'immagine della Vite ed i Tralci quale metafora della Famiglia umana

by Mauro 19. maggio 2013 15:12

   Oggi avrò modo di incontrare il Gruppo Famiglie della Comunità di S.Castrense in Monreale per condividere la tematica dei legami familiari a partire da un’immagine biblica, quella della Vite ed i Tralci. Qualcuno potrebbe pensare che sia anacronistico riflettere sul famigliare lasciando risuonare un testo biblico e questa precomprensione appare ancora più avvalorata dal fatto che oggi si cerca di riflettere su tematiche quali la genitorialità o l’educare attraverso una prospettiva che non ha come riferimento la famiglia ma l’individuo!
       Diversamente penso che bisogna tornare a domande fondative per comprendere l’identità e il vissuto della famiglia così come ritengo che l’esperienza spirituale costituisca, e non solo per tradizione, una dimensione essenziale della famiglia a prescindere dal credo religioso professato dai singoli individui che ne fanno parte.
          Premesso ciò cerco ora di condividere la risonanza che viene dall’immagine biblica proposta. La parabola della vite ed i tralci viene utilizzata da Gesù per esprimere il rapporto tra Dio ed il suo Popolo, è un’immagine molto eloquente ed esprime bene la cura su cui si fonda questo rapporto.
          Già in tutto l’Antico Testamento è possibile constatare tutta l’attenzione che Dio mette nel curare questo incontro ove Lui si china e riconosce l’altro quale oggetto d’amore. Pensiamo al Salmo 80, 9ss in cui viene Dio si adopera per favorire la crescita ed il benessere della Vigna-popolo. Ricordando gli anni in cui andavo a vendemmiare ho avuto modo di constatare quanta continua cura è necessaria per fare crescere e mantenere un vitigno. Richiede davvero tanto e costante lavoro annuale, per cui il tempo della raccolta è davvero il frutto di un lungo e lento percorso, un risultato che può andare perduto anche a motivo di un acquazzone settembrino che viene a disperdere il raccolto proprio qualche giorno prima della vendemmia.
           A fronte di tanta cura si assiste nella Bibbia alla possibilità di diventare sterile, infruttuosa quando il vitigno si abbandona ad altre cure. L’Antico Testamento fa riferimento al culto degli idoli da cui  scaturisce l’invasione da parte di altri popoli, la conquista che diventa sudditanza, perdita della propria libertà. Nel “canto della vigna” di Isaia 5 viene descritta la tragica sorte di chi si illude nel rivolgere altrove le sue radici per attingere vita finendo con averne saccheggio e desolazione.
           In tutto l’Antico Testamento la vigna appare ripetutamente ferita, incapace di fedeltà nel vivere il suo rapporto con la sorgente della vita, fino a quando Gesù annunzia la novità “Il sono la vera vite, voi i tralci, il Padre mio è il vignaiolo” (Gv 15), parla cioè dell'intimità fra il tralcio con la vite, ed entrambi uniti sono oggetto della stessa cura. Non si tratta più di Dio che si rapporta alla Vigna-popolo ma a se stesso unito al Popolo.
           Il “dimorare” in Dio ora viene riassunto nel restare legati così come il Tralcio resta nella Vite. È un nutrirsi l’uno dell’altro, Dio si mette in gioco perché comprende che da solo l’uomo perde la capacità del legame, del restare unito all’altro. Tale rapporto infatti si fonda sull’amore e la creatura, da sola, non riesce a trovare una spinta abbastanza forte per mantenersi nel rapporto con l’altro. Prima o poi finisce con il ripiegare nell’ego-centrismo, l’altro sottomesso a me!    

           Uscendo dalla metafora biblica ed entrando nel rapporto intra-familiare i coniugi realizzano questo modello nello scoprirsi Vite per l’altro, ciascuno dona linfa vitale al partner e questo è possibile nella misura in cui ciascuno affonda le proprie radici in Dio. E’ Lui a dare esperienza storica della propria esistenza, ciascuno prima si scopre chiamato alla vita, riconosce la propria esistenza come dono d’amore e solo in seconda battuta può donarsi all’altro. Senza questa intimità con Dio le relazioni potrebbero essere inficiate da un’aspettativa troppo grande, ma l’altro non è Dio a me stesso, ne farei un idolo.
         Questo legame che permette la lettura della propria storia ed unicità, passa per l’ascolto della Parola, l’altro che è Dio si rivela attraverso una Parola (teniamo presente che nel senso biblico gesta e parole sono intimamente connesse), e proprio questa Parola rivela un rapporto d’amore, fino a che punto Dio è disposto a rischiare e a donare la propria vita per me. L’ascolto diventa “obbedire”, il termine “Obbedire” deriva dal latino ob-audire, che significa  “ascoltare stando di fronte”. Al di là delle posizioni reattive proprie del nostro tempo, l’obbedire è un permettersi di essere interlocutore dell’altro, stargli di fronte per interagire con lui. Questa posizione diventa essenziale per i coniugi, ove ciascuno fa spazio all’altro nella propria vita. Questo atteggiamento, inoltre, diventa preludio per fare spazio alla prole ove i genitori metaforicamente fungono da “Vite” per la loro crescita.
         All’interno della parabola emerge il tema del portare frutto. In realtà la nostra esistenza è chiamata fruttificare, ciascuno sente il bisogno di portar frutto, di esserci appieno in questa vita. I drammatici fatti di questi giorni in cui tanti arrivano al gesto estremo del togliersi la vita sono anche dovuti a questo senso di inutilità sperimentato a motivo della disoccupazione. Simile “soluzione” nasce da una confusione di fondo, l’esigenza propria dell’essere umano è sì di sentirsi utile ma questa esperienza scaturisce da una potatura. Cosa intende rivelare la parabola con questa indicazione? A volte nella vita restiamo legati a cose che di fatto non ci aiutano a portare frutto, ciò che di fatto impedisce la propria crescita anche se può sembrare “più comodo”. Pensiamo a quanti “no” da parte dei genitori sono indispensabili per la crescita dei figli, eppure a primo acchito questo è sperimentato come una potatura, un farsi del male. Alcuni genitori non reggono questa esperienza di frustrazione per cui ripiegano su un continuo essere accondiscendenti verso i figli, in questo modo ne impediscono la crescita, oggi troviamo tanti adulti che si comportano da perenni bambini. Viene potato sia ciò che è secco, è male per la pianta, ed anche ciò che non favorisce appieno la crescita. Sono quei “compromessi di vita” che ci fanno stare in continuo stato di sofferenza, essere nelle cose ma non appieno, questo stato preclude la libertà e fomenta l’ipocrisia della vita.
         Questo processo ci rimanda alla sobrietà del cammino, la vita o è un sempre maggiore accumulo oppure è un graduale spogliarsi delle cose per arrivare all’essenziale. La vita ha bisogno di leggerezza, quella che favorisce appieno l’espressione dell’amore.  
         La potatura pertanto è da intendersi quale atto di cura e di fiducia, proprio perché l’agricoltore sa che altrimenti la forza vitale si disperde e il frutto sarà povero, privo di gusto, e oltretutto questo sovraccarico potrebbe fare andare in sofferenza la pianta fino a procurarne la morte. Inoltre è un riconoscere la capacità di fare frutto della pianta, è un pensare ai bei frutti che potrà dare per la propria ed altrui gioia.

 

Add comment

  Country flag

biuquote
  • Comment
  • Preview
Loading

Month List

RecentPosts