Le parole della psicoterapia e la Parola dell’accompagnamento spirituale /3

by Mauro 22. maggio 2014 12:00

    Quando si comincia un percorso di accompagnamento, può accadere che, sia lo psicoterapeuta che il sacerdote si ritrovino di fronte ad una persona che tende a parlarsi addosso, generalizzare o idealizzare, senza affrontare il quid del problema.
     Le parole possono essere usate per creare distanza, per dominare il setting o per sentirsi al sicuro nascondendosi dietro di esse. Alla base di certe difese sta il modo di percepirsi e di percepire la realtà circostante, là dove la persona ha innanzi un modello ideale, di sé e degli altri, la parola viene utilizzata per giustificare tale convinzione che orienta la vita.
     È da prestare attenzione ai significati, alle tonalità, al contesto narrativo del discorso, tutti indizi che permettono a chi ascolta di andare oltre le parole ed iniziare a intuire contenuti impliciti, domande inespresse, rivelazioni sottostanti, modi di falsare la verità.
       Nella prima fase della relazione terapeutica lo psicologo cercherà di inculturarsi, avvicinarsi utilizzando categorie e linguaggio propri dell’interlocutore in modo da empatizzare senza però colludere con elementi disfunzionali. Cercherà, cioè, di stabilire alleanza terapeutica, canale relazionale su cui successivamente fare scorrere i contenuti e le confrontazioni su ciò che appare distonico.
     L’accompagnatore spirituale avrà una metodica simile, è il modello offerto dal Maestro come ad esempio emerge nel dialogo di Gesù mentre accompagnava i discepoli diretti verso Emmaus (Lc 24, 13). Lui si china sui loro contenuti, anche se sono “discorsi di morte” cioè funzionali a nutrire il malessere,  e proprio questa vicinanza gli permette di fare domande esplicative che man mano permettono di riorientare la prospettiva, mostrare quello che fino a quel momento i discepoli non volevano vedere così immersi come erano nella loro delusione. C’è una pedagogia nell’intervento divino che rispetta, senza spingere, i tempi della persona e dopo averla raggiunta in profondità, nel buio dell’esperienza di solitudine e fragilità, man mano inizia ad accompagnarla nella riscoperta di sé di fronte a Dio. La Parola diventa illuminante in quanto restituisce verità alla relazione Creatore-Creatura e questa scoperta è sanante proprio perché l’individuo si sente amato a partire dal suo qui e ora e non da ciò che avrebbe dovuto essere.
        Nella vita spirituale l’idealizzazione (propria degli inizi ma che si può ripetere anche a cammino inoltrato) abbisogna di una graduale disillusione per stabilire relazione profonda con il Signore. È per questo che anche le esperienze apparentemente fallimentari sono colte come luogo di guarigione proprio perché favoriscono la caduta delle sovrastrutture. A riguardo è possibile rintracciare diverse distorsioni.
Il culto delle cose di Dio, ad esempio, può diventare il culto di se stessi, cioè il modo per stare al centro della attenzione, protagonisti di ciò che si dice o che si fa. La vita spirituale richiede un passaggio opposto, una spoliazione che favorisce, man mano, l’incontro con il divino. Fino ad allora il cammino cristiano è soltanto agli inizi, l’individuo deve imparare a decentrarsi per entrare in relazione.
        L’idealista invece mette dei pesanti gravami sulla religione, ha un ideale a cui uniformarsi e attraverso di esso giudica anche gli altri. L’idealizzazione è anche conseguenza di una insinuazione, quella del peccato delle origini, che fa percepire il limite come una minaccia. La creatura non accetta di essere condotta dal Creatore, pensa di dovercela fare da sola e in questa pretesa sta la ricerca di protagonismo, cioè il voler dimostrare di essere qualcuno.
           L’uomo preferisce coltivare l’ideale di perfezionismo, il Sii forte a garanzia della propria vita e del proprio potersi riconoscere “buono”. Finisce così con il rivendicare la sua identità attraverso l’opera che realizza. Questo atteggiamento fa vivere in competizione con gli altri in quanto, per affermarsi, ciascuno deve dimostrare che quello che ha fatto è meglio di quello che ha realizzato un altro. Oppure si vuole dimostrare di essere Salvatori e con questo ruolo trovare adeguato riconoscimento. In questo senso facciamo dei nostri ruoli, luoghi di servizio o ministeri, il nostro cibo: il pane attraverso il quale affermarci/sfamarci. In quel caso lo strumento rischia di diventare meta.

           È la logica di appropriazione e di manipolazione, il contesto/persona diventa il luogo in cui esibirsi per affermarsi. Paradossale constatare che Gesù per trent’anni è rimasto in ascolto, non ha fatto o detto alcunché, è rimasto ad ascoltare quanto l’umanità del suo tempo aveva colto del Padre suo, ha lasciato risuonare dentro quello che il contesto gli andava mostrando. Ha digiunato da parole ed opere prima di manifestarsi in parole ed opere.
           La crisi cristiana è data proprio dall’attivismo di molti che spacciano per “disegno di Dio” il desiderio di autoaffermazione. L’indice di riferimento, in quel caso, è l’audience, dal suo livello dipenderà il senso di riuscita o di fallimento. Ma il discernimento in questo caso su cosa si fonda? Per quanto riguarda Gesù l’audience è stato pessimo, chi prima l’osannava poi ha votato la sua crocifissione. (continua)


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