Il silenzio che diviene Parola

by Mauro 14. giugno 2015 08:32

    I bambini ci chiedo di leggere e rileggere più volte le favole della vita, storie conosciute e sempre nuove, proprio perché l'essere umano porta in sè la capacità di far proprie le storie e ridirle attraverso la propria vita sempre creativa ed originale. L’universo cristiano, in particolare, ci rimanda ad un diverso modo di usare la parola, una prospettiva secondo cui attraverso la Parola, accolta e donata, la vita diviene feconda.

          Di fronte ad un mondo che pare avere mercificato la parola piegando i significati agli interessi di turno (si pensi alla politica o al mondo del marketing), l’uomo contemporaneo pare non trovare più le parole che lo portino all’interiorità, alla confidenza con il suo sentire profondo. È così che spesso in terapia assistiamo alla difficoltà a raccontarsi ad esprimere il vissuto profondo. A riguardo un testo importante per lo psicoterapeuta rimane il corpo, ciò che sembrerebbe incomunicabile a mezzo della parola appare ascritto nel linguaggio del corpo, così come nelle somatizzazioni della persona.

           Prima ancora che la psicologia parlasse del potere della parola per avviare processi di guarigione così come per mantenere lo stato patologico, è stato il cristianesimo a sostare innanzi alla Parola quale incontro con il divino.

           Proprio oggi la Comunità cristiana si ferma a meditare due brevi parabole del Regno dei cieli (Mc 4, 26 – 34), vogliamo pertanto approfondire il senso della parabola e la portata che può avere per l’uomo contemporaneo. In primo luogo essa ci permette di comprendere significati ulteriori, di andare oltre l’evidente. La cultura ipertecnologica ci ha abituati al fluire delle immagini ma con un’esperienza differente da chi può sostare estatico dinanzi ad un’opera d’arte o uno scritto, così come chi entra in un luogo sacro, ad esempio il Duomo di Monreale, e viene rapito nel contemplarne la bellezza.

         La velocità di esplorazione del web, seppure ricca di suggestioni con effetti scenici sorprendenti, di fatto mantiene in superficie e sembrerebbe passivizzare sempre più lo spettatore ridotto a “contenitore” inerme. È quel che accade con i ripetuti spot commerciali i quali cercano di vendere servizi e prodotti procacciando acquirenti attraverso immagini di belle donne che, stimolando la piacevolezza sensuale, attivano il desiderio per quello che il prodotto pubblicizzato, in realtà, non è.

           La parabola evangelica è un altro modo di comunicare, in quanto carpisce la capacità di simbolizzazione propria dell’essere umano e gli affida l’elaborazione del messaggio che porta. La persona, ha un ritmo biologico, una postura di vita dettata dalla sua corporeità e sensibilità, e l’esposizione ad un flusso percettivo eccessivamente accelerato finisce con l’esporre a gravi scompensi, tanto che per inseguire le molteplici suggestioni, oggi, molti ricorrono a eccitatori dell’attività mentale (dalle anfetamine alla cocaina).

               Ritornare al simbolico appare la via elettiva per riappropriarsi di se stessi, esperienza propria della liturgia o del contatto con la natura. Proprio nel rapporto con il divino troviamo la necessità di un linguaggio che permetta di dischiudere lo sguardo alla profondità del Mistero. La parabola apre questo ingresso, ma essa richiede sosta e silenzio per lasciare risuonare la Parola ed immergersi nel suo significato profondo. 

             Nelle due brevi parabole del Regno dei cieli, narrate nel Vangelo di questa domenica, viene descritta l’azione di Dio e la sua efficacia nel mondo. Lui agisce come il seminatore che getta il buon seme e, nell’atto di seminare, desidera donare parte di sé alla creatura: la semina è l’apertura ad una profonda comunione.

             L’atteggiamento umano richiesto è quello dell’attesa accogliente. Il terreno, metafora della vita di ciascuno, è la condizione di crescita di cui il cristiano deve farsi carico. Ne consegue che ogni persona deve decidere da che parte stare: o terreno impermeabile che pretende di avere già le risposte alla propria vita, o terreno permeabile, aperto al dono perché si sente mancante di qualcosa di veramente prezioso.

            Il cristiano vive nel “già e non ancora”, già assapora ma attende il compimento. La qualità della vita dipende dalle mete che ci prefiggiamo e non si tratta di nutrire l’idealizzazione ma di imparare a stare nel momento attuale cogliendo in profondità le conseguenze di ogni singola azione. Mi mantengo terreno fertile quando, malgrado le persecuzioni ed i rifiuti, continuo a perseverare nel Bene.

             La promessa di questa parabola è straordinaria,  il seme cresce da sé andando al di là degli schemi personali, la Parola di Dio trova un suo percorso nella vita di ciascuno se gli si dà spazio. Non è la frenesia del frutto immediato a determinare la crescita del Regno di Dio, piuttosto segue tempi differenti che sfuggono all’immediata comprensione umana.

              Lo stesso vale per il granello di senape che cresce diventando un grande albero che dà riparo. Ciò che potrebbe risultare insignificante è quello che da Dio viene utilizzato in modo speciale. Tornano in mente i versi del Magnificat, “…ha innalzato gli umili”, Dio confonde i potenti di questo mondo esaltando i piccoli. 

                Se pensiamo a chi lascia traccia in questo mondo ci viene innanzi la testimonianza di tanti piccoli: Madre Teresa, Francesco di Assisi, Paolo di Tarso, tutti uomini che hanno rinunciato a farsi da soli, con le loro sole forze! Ecco accogliere il Regno di Dio equivale a guardare Gesù, alla sua vita fino al dono totale, e passare dalla meraviglia alla consegna piena di sé.

                 Pensando ai Missionari di Strada che si stanno preparando a vivere la Missione che si svolgerà a Mondello dal 2 al 9 agosto, ritengo che ripartire dall’insegnamento che ci viene dalle parabole sia una esperienza necessaria. Il Mistero non va spiegato, piuttosto va indicato affinché ciascuno, liberamente, possa farne esperienza.  

 

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