Il bisogno di verticalità per stare nelle cose della vita

by Mauro 13. settembre 2015 09:33

       Accade nella vita di una persona, che tutto ad un tratto si riscopre il valore della paternità e maternità dei propri genitori. Si percepisce che dietro le cose ricevute o negate, o il senso di certi discorsi, stava il loro desiderio di bene, il cercare di custodire e di fare evolvere la vita dei propri cari.

        Certo l’agire umano non è scevro da sbagli ed incomprensioni ma quel che si riscopre, una volta diventati adulti, è il valore che ciascuno ha per l’altro, il compromettere la propria vita con e per l’altro. Anche le negazioni hanno un valore aggiunto, anzi, considerato che è prerogativa del genere umano la negazione esplicita la peculiarità dell’amore che sa anche sostenere il peso dell’incomprensione anziché scendere nel compromesso. È così che l’assenza dei “no” nei messaggi educativi oggi, determina la mancata definizione in molti che non riescono a “trovarsi” proprio perché non hanno la percezione del limite, del confine tra sé e l’altro, tra la scelta e le tante possibilità offerte dalla vita.

         Approfondisco, a tal proposito, la pagina del Vangelo di Marco (8, 27-35) che la Comunità cattolica medita in questa domenica, all’interno di questo Blog anziché quello dei Missionari di strada, così come siamo soliti fare, per la portata esistenziale che ne viene per ogni persona al di là del credo ma che, certo, desidera prendersi cura della propria dimensione verticale.

         Gesù è giunto a Cesarea di Filippo, così chiamata nel 13 d.c. dal tetrarca Filippo in onore dell’imperatore Tiberio Cesare, distante 170 km da Gerusalemme. È un luogo pagano intitolato al potere imperiale, il più distante da Gerusalemme fin dove arriverà Gesù. C’è una marcata distanza topografica e spirituale come ad indicare che la confessione di fede vera, è possibile quando sperimentiamo la vicinanza di Dio là dove siamo anche se nel buio più fitto.

         La gente conosce Gesù per le sue gesta ma questo è ancora un sapere mediato dai doni ricevuti, dal sensazionale, come quando il bimbo si sente amato se accontentato attraverso un dono. A volte l’esperienza di fede si muove sul registro della gratificazione: “Se Dio mi dà, allora c’è!”.

        Ora si assiste ad una domanda da parte di Gesù: “Chi sono io per te?”. Proprio questo interrogativo segna il passaggio alla fede adulta, fino a quando l’uomo rimane ad interpellare Dio per avere delle risposte o viene affascinato dal chiedere, vive un rapporto di dipendenza fiduciosa che è solo il primo passo verso fede. 

        Le differenti risposte della gente rappresentano una sorta di pareri ed opinioni personali, ma la fede non può fondarsi su questo tipo di confronto, oggi l’umanità dirà qualcosa su Dio ma domani potrebbe dire ben altro. Non si tratta di aderire a questa o a quell’altra moda sociale, o a fare di Dio il frutto delle proprie proiezioni ed aspettative ideali. Lui è ben altro e porta oltre la comprensione dell’uomo, la conoscenza di Dio è questione di immersione nel Mistero, cioè un ingresso nel discepolato: può conoscere il Maestro solo chi segue il Maestro.

          La risposta di Pietro è lapidaria: “Tu sei il Cristo”. L’apostolo ha colto che il liberatore è lì innanzi a lui, la speranza di tutto il popolo potrà trovare risposta in Gesù. Ma quel che accade dopo ci rivela come questo atteggiamento non è affatto sufficiente: è possibile cogliere che Dio è il liberatore della propria vita e, al contempo, non accettare il “come” Lui libera la propria vita!

         Pietro, infatti, si opporrà alla rivelazione che Cristo farà della sua passione, rimprovererà Gesù come a dirgli che non ha compreso come debba fare il Messia, Pietro vorrebbe indicare a Gesù il modo di procedere per essere veramente l’Atteso, comprendiamo l’illusione che segue il primo tra gli apostoli. Un atteggiamento analogo lo troveremo nel Getsemani al momento dell’arresto di Gesù quando Pietro sguainerà la spada per difendere il Maestro, ma non sarà disposto a seguirlo sulla via della Croce dopo avere deposto l’arma.

           Repentina la risposta di Gesù: “Va’ dietro a me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Gesù sgrida Pietro, gli intima di stare dietro e cioè di essere discepolo. Chi si mette innanzi a Gesù diventa avversario, piuttosto Gesù gli sta rinnovando la sua chiamata al discepolato. Non può essere il pensiero di questo mondo e le proprie opinioni ad esso legate a dirigere il cammino, per trovare la Via il discepolo deve mantenersi dietro al Maestro.

           In realtà ciascuno obbedisce ad un “maestro”, la questione è di chiedersi se davvero il riferimento della propria vita è liberante. 

         La fede diventa, alle volte, pretesa di dominio su Dio e sugli altri, come a volere gestire i progetti della propria vita. Il punto, pertanto, è come rapportarsi alla Croce e alla sofferenza della vita, a ciò che non corrisponde ai propri desiderata.

         Gesù rivela che nel cammino ci sarà la Croce ed è questo il vero ostacolo che incontra Pietro. Il nodo è dato dal fatto che l’umanità non riesce a vedere oltre la Croce cioè a dare senso ad ogni esperienza della propria vita, mentre l’esistenza personale è sempre occasione per il rivelarsi di Dio. Molti, diversamente, potrebbero cercare di organizzare la propria vita in modo “evitante”, cioè non mettendosi in gioco per non rischiare di soffrire: è il caso, ad esempio, delle coppie che convivono per non affrontare il prezzo del legame, o di quanti sono accomodanti con tutto entrando nel compromesso per avere tutti “amici”.

          Un ulteriore aspetto che impedisce la libertà e la fedeltà nel cammino di sequela ci viene indicato dalla profezia di Isaia (50, 5 – 9) che incontriamo nella prima lettura e che ci mostra i tratti del Servo sofferente, con il quale sarà identificato il Messia liberatore di Israele. Oltre a delineare gli oltraggi che riceverà, Isaia ci dice anche della sua postura nel cammino: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”.

         Questa espressione appare davvero importante e ci rimanda ad un ulteriore passo del vangelo di Luca (9, 51) dove si dice che Gesù “indurì il volto per camminare verso Gerusalemme”. È necessario raccogliersi in se stessi, custodirsi, per andare “decisamente” verso la meta.

         Altrimenti il dare spazio a critiche ed insinuazioni potrebbe compromettere il cammino perché presi dalle risonanze interiori e dall’occuparsi, mentalmente ed emotivamente, del torto subito. Quante persone, infatti, spendono la maggior parte delle proprie energie nel cercare di convincere gli altri del proprio operato o cadendo nella mormorazione per il male subito?

          La vita comporta un scelta: o pretendere di avere già tutte le risposte fino a farsi giudici e consiglieri degli altri, oppure riconoscersi come discepoli capaci di condivisione facendo della esistenza personale una continua ricerca e scoperta del cammino appena attraversato. 

 

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