Dalla autenticità del grido dipenderà il canto dei propri giorni

by Mauro 25. febbraio 2018 19:35

     Quando si è in pericolo si comprede dove poggia la propria esistenza, quale appiglio regge il cammino e, di conseguenza, da chi si crede possa venire la vita. Ci sono terremoti, tempeste, che possono destabilizzare la nostra traversata ed è lì, quando si rischia di andare a fondo, che si innalza il proprio grido. Quello che scaturisce dal segreto del cuore quale ultimo atto che ci è consesso per stare in vita.

       Questo è il tema di partenza che oggi ha visto più di quattrocento terziari francescani i quali, di buon mattino, si sono dati appuntamento nel convento dei Cappuccini a Palermo per vivere una giornata di riflessione e confronto sulla vita fraterna a partire dal grido che gli apostoli rivolgono a Gesù, impauriti per il mare in tempesta: “Salvaci Signore, siamo perduti”.

     Il grido esprime il bisogno di comunicare il proprio stato di necessità, lo svelare il proprio bisogno senza più alcun mascheramento. Mentre il canto esprime la gioia interiore, il senso di festa o il prendersi cura di un altro come nel caso di un piccolo che viene addormentato attraverso la nenia di una madre, il grido in modo drastico rivela che da soli non si regge il carico da affrontare: la vita.

Scopriamo, stando nelle cose della vita, che abbiamo bisogno sia dell'uno che dell'altro per trovare la giusta misura, per costruire relazioni e non rimanere in solitudine a fronteggiare la vicenda quotidiana.

L'esistenza, appunto, inizia col grido di un neonato che cerca di trovare riconoscimento e risposta in qualcuno che ascolta. Così la storia del popolo d'Israele inizierà con un grido ascoltato da Dio. È così che Lui si fa vicino, prossimo e si rivela a Mosè, non sarà l'uomo ad avvicinarsi a Dio ma il contrario.

Ciascuno ha bisogno di trovare il grido che esprime la propria vita, cioè quel bisogno profondo che è desiderio di senso per cogliere verso dove rivolgersi. Comprendiamo bene che l'esistenza porta con sé una gradualità e la ricerca di solutori che possano dare risposte immediate per cambiare la propria storia porta ad esperienze devastanti, storie illusorie senza domani.

Il grido dei discepoli è centrato sulla paura come rivelerà loro Gesù, non si fidano e cioè non vivono una piena relazione con Lui e, pertanto, sono in balia degli avvenimenti: il paesaggio esterno reca loro euforia o turbamento.

Quando è la paura a dirigere la propria vita si rischia di entrare nel compromesso, nella rinuncia o, ancora, nell'aggressività. Henri de Lubac affermava che “gli uomini di norma non sono così malvagi tra loro se non quando iniziano ad avere paura gli uni degli altri”.

È così che una certa politica, che oltretutto fa leva su effetti mediatici, cerca di ingenerare paura in merito ad accadimenti come ad esempio i flussi migratori, in modo da proprinare misure difensive tali da salvare la vita di una Comunità. Molti totalitarismi nella storia hanno, così, avuto inizio!

Di fatto la paura ingenera ansia, frenesia per il tempo che scorre, corsa per evitare attese e tempi “infruttuosi”. Eppure è assai preziosa l'attesa così come il silenzio, senza pausa non c'è accoglienza profonda, e la risposta immediata finisce con l'estinguere il desiderio.

I discepoli scopriranno il loro desiderio di relazione con Gesù ma dovrà essere frustrata la  loro brama di appagamento immediato, di comprensione e compimento senza strada da fare. Nella barca Gesù dormirà, anche se non lo comprendono sta mostrando loro cosa significa fidarsi del Padre.

Sebbene dal lago traggono la provviggione attraverso la pesca, sanno che le acque possono strappare loro la vita. E proprio nell'Esodo il Signore aveva mostrato come Lui vince le acque minacciose e come il popolo che si era affidato era passato oltre, intraprendendo il cammino verso la terra promessa.

La precarietà propria della traversata diventa un'occasione di perdita e consegna per l'uomo che scopre Dio. La tentazione di fondare l'eistere umano sui possessi o le immagini sociali è davvero sottile ma, di contro, il riconoscersi viandanti apre spoglia di tale pretesa e custodisce la leggerezza, condizione necessaria per il cammino. La relazione di fede diventa, secondo tale prospettiva, continua consegna, restituzione e gratitudine, non appropriazione, per il dono ricevuto.

Comprendiamo, allora, come Francesco d'Assisi entrava in profonda risonanza intonando il canto quando contemplava il creato o, negli ultimi giorni, prossimo ad incontrare sorella morte. Non è l'accadimento esterno, neppure la morte, a reggere la propria esistenza ma la relazione di fiducia in Dio.

La chiamata francescana, portatrice di questa esperienza, ha molto da raccontare al mondo contemporaneo. Ma per essere sale e luce della terra è necessario avere accolto il fuoco di Dio e la sua conoscenza, quella che dà sapore a tutte le cose.

Non si tratta di un mero apprendimento cognitivo, di sapere tutto su Cristo ma di lasciarsi rigenerare da Lui e, per fare questa esperienza, è necessaria l'esperienza battesimale: di perdita di tutto e riemersione perchè tratti da Dio.

Il paesaggio contemporaneo si oppone a questa logica, è evidente, ed è per questo che vengono attentati i cardini della esperienza cristiana. Basti pensare alla perdita di limite e di confine secondo la logica del “tutto e subito”che schiaccia l'essere umano, sin dall'infanzia, nel soddisfacimento sempre più compulsivo del bisogno immediato.

Quanta aggressività consegue a questa incapacità di tollerare la frustrazione. Ma, sappiamo bene, il bisogno non appaga e una volta accontentato riattiva un nuova spasmodica ricerca. Simile spinta è dettata da una pretesa libertà da ottenere i simile modo.

Eppure comprendo che se la libertà è data dalla possibilità di scelta, allora essere liberi equivale a decidersi per una strada e custodirla nella libertà di rinunciare a tutto il resto.

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