Bisogni religiosi o psicologici?

by Mauro 6. gennaio 2012 16:39

Nel 1927 Sigmund Freud, nel testo  L’avvenire di un’illusione, affermava che non esistono bisogni religiosi ma soltanto bisogni psicologici. Pur ammirando le profonde intuizioni di Freud non sono ancora riuscito a spiegarmi certe prese di posizione che appaiono più come dei pre-giudizi anziché essere il frutto di vera ricerca scientifica.
        Prendendo spunto da quella che a mio parere resta una incongruenza, voglio sottolineare la rilevanza che gli assunti antropologici di riferimento hanno nell’orientare la ricerca scientifica e la riflessione sull’uomo. 
        Premessa indispensabile a mio avviso è il consideare l’essere umano sempre in situazione, cioè quale persona che abita un contesto ed è abitata da uno specifico retroterra socio-culturale.

        Eppure ho partecipato a  convegni ove ascoltando i vari relatori che pretendevano di essere dei puristi del pensiero fino a difendere ad oltranza l’oggettività della loro ricerca e del loro punto di osservazione, mi rendevo conto della intrinseca contraddizione di certi discorsi e di come, dietro una critica a chi aveva delle prospettive diverse anche a motivo della esperienza di fede, si celasse un forte pregiudizio. Ancora ho assistito anche a parecchi sorrisi sarcastici quando in certi circoli di psicologia entravano colleghi che portavano un abito religioso o una collana con un Crocifisso. È con rammarico che ancora oggi si registrino tali pregiudizi all’interno del nostro ambiente professionale ove l'arte psicoterapica ha come assunto di fondo l'assoluto rispetto della persona che si ha al fronte.
        Certo ogni Scuola di pensiero ha alla base un quadro antropologico di riferimento, una visione dell’uomo e pertanto del suo orizzonte di senso. La chiave ermeneutica per leggere la realtà esperita è data proprio dal bagaglio che man mano viene maturato nel corso della propria storia. Non condivido la posizione di chi vede l’essere umano quale frutto del prodotto sociale, passivo nel recepire gli stimoli della realtà che lo circonda. Piuttosto leggo la complessa vicenda umana a partire dalla naturale apertura all’altro, dalla capacità proattiva propria di ciascuno, e dal reciproco modellamento frutto dell’interscambio con l’altro e con l’ambiente che ci circonda.
        Ho interesse per l’approccio fenomenologico esistenziale che trova nella relazionalità il centro della realtà umana, quale capacità di partecipare in modo unico alla vita lasciandosi provocare dall’esistenza stessa. Di fronte al vivere non si può restare neutrali, indifferenti, bensì siamo chiamati ad una risposta, di accoglienza o rifiuto, così come di trasformazione. Secondo questo orizzonte l’umanità mi appare in cammino verso l’incontro con l’altro, incontro che non si traduce in mera unione simbiotica e spersonalizzante, ma nel riconoscimento reciproco. Il connaturale orientamento verso il “tu”,come lo definì Martin Buber, implica una distanza che può essere colmata, ma mai del tutto, solo nella misura in cui l’essere umano si ritrova di fronte all’altro e lo riconosce. Tale riconoscimento impone un decidersi e un responsabilizzarsi nei suoi confronti. C'è un dinamismo tra esistenza e coesistenza in cui l’ “essere con” porta a riconoscere l’altrui e la propria identità. La risposta a questa provocazione sarà data dall’agire ed esso comporterà un assumersi la responsabilità dell’altro.
        Aggiungerà Lévinas che la vita così come la morte dell’altro diventa una responsabilità comune, una con-vocazione a cui la risposta è data dall’essere co-responsabili. In questo rapporto trova senso oltre al vivere per l’altro anche il morire per lui. Leggo in questa prospettiva la possibilità di un rinnovamento dell’etica che, a partire dall’esteriorità e quindi dal volto dell’altro, chiama l’individuo alla responsabilizzazione nei confronti di chi incontra lungo il suo divenire storico. 
       Nessuno in realtà può evitare la sfida che viene dal vivere, ognuno è chiamato a decidersi nei confronti dell’altro e in questo processo l’esperienza religiosa diventa movente, orizzonte di senso, forza per nutrire la naturale spinta al nutrimento che viene proprio dalla relazione. La propensione umana a crear relazioni, a socializzare trova nell’altro un confronto volto alla crescita, e proprio tale orientamento permette alla persona di percepirsi quale individuo, indivisibile (dal latino in-dividuum) a partire dal rispecchiamento con l'altro. In tale rapporto la libertà d’apparire genera la libertà d’essere  mentre, al contrario, lo smarrimento della propria identità d’essere viene legato al non poter apparire per ciò che si è.
        Secondo tale orizzonte ognuno è epifania, costante manifestazione nei confronti dell’altro, luogo per percepirsi e trovarsi; e mentre Freud vede nel fenomeno religioso una illusione e perciò una proiezione dei profondi desideri dell’essere umano, io scelgo di dare fiducia ai suoi profondi desideri credendo che ogni persona, nel suo profondo, anela al vero bene che, in quanto tale, non è mai intimistico ma ha il valore di bene comune.

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