Una Società obesa manca di custodia

by Mauro 17. luglio 2016 10:29

      Accogliere è proprio dell’uomo evoluto, l’atteggiamento di chi si dà valore e non ha bisogno di primeggiare sull’altro per riconoscersi. Nel mondo antico l’ospitalità rimandava alla sacralità della vita, in quanto ciascuno si faceva custode del viandante, facendolo riposare e rifocillare. Soprattutto per i popoli nomadi ciò costituiva un principio di condivisione e non solo di ciò che è materiale: il tetto è un bene ma lo è anche la relazione.

      Si pensi ad una vita senza amici, senza persone con cui potere parlare per sfogarsi o capire, elaborare le questioni interiori. Si immagini un’esistenza senza gioco o scherzo, un quotidiano scandito dalla seriosità del dovere e del lavoro, del produrre per guadagnare. Si pensi all’elevata quota di sofferenza legata alla solitudine propria della società dei consumi!

L’accoglienza apre i confini interiori, espone alla sorpresa, alla scoperta del nuovo, ad emozioni e conoscenze inedite, a pensare la vita diversamente da quel a cui si è abituati.

E, poi, c’è un entusiasmo proprio della reciproca gratitudine, il grazie altrui è gioia del cuore, in quanto chi compie il bene, quello vero e disinteressato, ha gioia per il beneficio altrui, per il sorriso che gliene viene.

Sembra che alcune emozioni oggi vengano scotomizzate dalla percezione del reale, come se gratitudine e gratuità, benevolenza e interesse gratuito, fossero atteggiamenti disumani!

Eppure colgo molta ansia e tristezza, rabbia e diffidenza, nell’uomo così fatto, è il contemporaneo ferito dalle sue stesse regole di mercato che rispondono alla locuzione  mors tua vita mea.

È un cerchio che ritorna continuando a riproporre vittime e carnefici, ora da una parte e ora dall’altra. È la guerra dei nostri giorni in cui chi si crede umiliato ecco che follemente reagisce tramando attacchi funesti.

Troviamo due scene di ospitalità nella Parola di oggi. Dapprima (in Genesi 18, 1-10) è Abramo, da cui nascerà una moltitudine, lui accoglie tre viandanti, dona ospitalità e con loro condivide il suo cibo. La storia da cui nascerà il popolo d’Israele inizia con un gesto di accoglienza e condivisione, da quell’incontro scaturirà la promessa della nascita di un figlio.

Sembra questa scena rivelarci un triplice movimento costituito da accoglienza – custodia – fecondità. Si, riconosciamo in questa prospettiva il dispiegarsi della vita in cui è necessario riconoscere e prendersi cura dell’altro, così come di se stessi, per poi consegnarlo alla sua storia.

L’accoglienza non è mai pensabile in termini di profitto o possesso, è uno spazio esistenziale per l’altro, è il riconoscimento del suo diritto alla vita.

Il custodire, invece, è dato dal condividere del proprio, dal nutrire e dall’educare, dalla responsabilità del trasmettere il proprio patrimonio culturale ed esperienziale alle nuove generazioni. È l’accompagnamento alla scoperta dei propri gusti ed attitudini, il favorire l’esplorazione volta alla crescita tutelando la gradualità delle esperienze. Una società obesa, diversamente, è una società in cui è mancata la custodia; così come una generazione che soffre l’analfabetismo emozionale è stata ferita dal mondo adulto che la circonda.

Ritengo che gesti efferati come quelli che hanno ferito la Francia negli ultimi diciotto mesi, dall’attacco nella redazione di Charlie Hebdo fino alla strage sul lungomare di Nizza, così come le guerriglie e le tante povertà nell’Africa dimenticata, sono imputabili a questa trascuratezza che attraversa il genere umano in cui l’uno cerca di dominare anziché custodire l’altro. E non sempre è così chiaro definire chi ha cominciato!

La fecondità, invece, che scaturisce dall’accoglienza è conseguenza della libertà con cui si vive la relazione con l’altro e, quindi, con se stessi. L’interlocutore non è persona da invadere o soggiogare, non è di logica di possesso che si parla ma di consegna alla vita, di gioia per il bene altrui. I tre viandanti dopo essere stati ospitati partiranno per la loro strada e Abramo e Sara avranno un figlio.

Nella seconda scena che ci viene proposta dal Vangelo (Lc 10, 38-42) troviamo quel che potrebbe interferire con l’accoglienza. Marta apparentemente ben disposta riceve Gesù nella sua casa solo che accade qualcosa di sorprendente e, direi, comune: viene “risucchiata” dalle tante mansioni.

C’è un fare che ha un sapore religioso e che potrebbe distorcere il senso delle vita. Marta sta predisponendo tante cose che vorrebbero indicare accoglienza, agisce per far stare bene l’Ospite, ma in realtà non lo ascolta così com’è immersa nelle tante faccende.

È l’atteggiamento dell’uomo che trasforma il suo credo in religione, dando la precedenza alle opere per dimostrare a Dio che si è buoni e, per questo, degni di merito. Equivale, simile atteggiamento, a dare un prezzo al Signore, pensare che Lui ami e protegga a condizione.

La fede è ben altra esperienza, scaturisce da un rapporto di fiducia filiale, è relazione con Dio e nutrimento quotidiano, necessità di ascoltare la Sua Parola così come l’aria che si respira. È l’atteggiamento di Maria che, dirà Gesù, “ha scelto la parte buona”.

Non si tratta di un qualcosa migliore di un altro, non c’è dicotomia tra l’ascolto ed il fare. Nel cristianesimo c’è un unico movimento che scaturisce dall’ascolto.

Marta, in questa pagina del Vangelo, si rivela “agitata” proprio perché ha centrato la sua vita nel mostrare le sue opere. Intuiamo in simile atteggiamento l’ansia di chi si svaluta e cerca di ottenere valore attraverso l’immagine delle belle opere.

È il mondo delle apparenze, quello di chi lotta per darsi una veste da mostrare, è il perbenismo delle nostre città, la religiosità fatta di pratiche formali ma prive di umanità. È l’atteggiamento dell’uomo ‘giusto’, quello che giudica l’altro senza permettergli di avere accesso al proprio cuore. È, ancora, così come ha espresso don Corrado, nostro vescovo,  l’uomo che si rende “latitante della vita”.

 

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