Il come si muore rivela la "postura" di vita

by Mauro 4. ottobre 2016 09:38

        Ieri sera il Rione Danisinni fino ai Cappuccini ha condiviso un’esperienza di intensa fraternità all’insegna della spiritualità francescana. Quella del poverello di Assisi che ottocento anni fa ha colto che la sapienza della vita viene dalle cose semplici, dall’essenzialità di ogni giorno in cui ciascuno ha l’opportunità di vivere scoprendosi figlio del Padre che è nei cieli.

           Si trattava della memoria del Transito di Francesco d’Assisi ossia il passaggio, attraverso la morte, dalla vita terrena all’eternità del Cielo. Cosa ha da dire un evento di morte all’umanità del nostro tempo, piuttosto concentrata sul momento presente a cui dare il massimo di prestazione e profitto come ad esorcizzare ogni idea di limite o di fragilità?

Francesco giunto a compimento della sua vita ricorda le meraviglie che Dio ha compiuto in lui e per fare questo “lascia la veste di sacco e si poggia nudo sulla nuda terra”. È la fragilità dell’uomo che si dispone a combattere l’ultima battaglia, quella del passaggio attraverso la morte.

Ancora una volta Francesco lascia che l’ultima parola spetti a Dio ed è il suo Vangelo, quello della Pasqua, che desidera ascoltare dai suoi frati. Anche in quella cena leggiamo che Gesù “depone le vesti e si cinge i fianchi con un asciugatoio”.

È l’Ora in cui Gesù si lascia spogliare di tutto ma rimane nell’amore, è forte solo del suo amore. È il momento del tradimento, di Giuda e con lui di tutta l’umanità. Gesù seppur abbia tanto amato adesso viene tradito, venduto, rinnegato, abbandonato da tutti. È l’Ora del silenzio, della solitudine in cui nudo si ritrova di fronte al Padre e, proprio quello, è il tempo in cui Gesù va ancora oltre servendo fino a lavare i piedi ai suoi discepoli che continua ad amare.

Non cerca scorciatoie Gesù, vie preferenziali per rivendicare i suoi diritti ed agire secondo giustizia, è l’amore che vince e per amare bisogna essere nudi di fronte all’altro.

Gesù si lascia toccare da Giuda, Dio vuole consegnarsi per salvare e non vuole discolparsi perché altrimenti tutti sarebbero stati condannati. Il chicco di grano che muore, attraverso il processo di marcescenza nutre i parassiti e li trasforma, attraverso il consegnarsi nasce la vita nuova.

Attraverso la Croce Cristo attacca le maschere, abbatte le resistenze dell’uomo. È qualcosa di analogo al processo evolutivo in cui sono i “no” che fanno crescere (esperienza mortifera)  e non l’essere compiaciuti.

È quel che era successo a Francesco a principio della sua conversione quando “fu condotto” tra i lebbrosi. Quella dell’incontro con la povertà altrui è opera di Dio, cioè riconosce Francesco che mai si sarebbe avvicinato tanto era il ribrezzo (FF 1407 – 1408), eppure lui si affida e con umiltà e pazienza accetta di reggere quella relazione (il primo peccato è spostare l’iniziativa a se stessi e non a Dio, la tentazione è quella di portare Dio ad agire come conseguenza al proprio atto).

La vita abbisogna di un sostare nella relazione con l’altro e con le situazioni senza cercare soluzioni immediate nella fuga. L’uomo non ha bisogno di anestetici ma di imparare a stare con il travaglio per l’altro. Certo un lebbroso ti questiona tanto, pensi alla tua di vita e quasi emerge un certo senso di colpa oppure comprendi che anche tu potresti finire in quel modo e cioè perdere tutto, almeno fino a quando “il tutto” è legato alla possibilità di fare, di essere attraente ed avere successo.

E quando successo non hai? Quando la tua vita è così povera da destare ribrezzo? Quando non hai altri che Dio? In quella situazione reputi ancora che la tua vita abbia ancora un valore ed un senso?

È accostandosi al lebbroso che Francesco scopre la vicinanza di Dio, scopre che anche l’uomo profondamente ferito abbisogna di amore, coglie che nessuna creatura può fare a meno dell’amore e questo lo si riconosce autenticamente quando ci sperimentiamo molto fragili.  

In quell’abbraccio con il lebbroso accade qualcosa di straordinario, Francesco viene trasformato: “E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo” (FF 110). La vicinanza con la ferita altrui lo libera dalla paura delle proprie ferite, la “dolcezza” è propria dell’uomo pacificato con la sua creaturalità. Francesco rimane limitato ma questo per lui non è più un ostacolo da superare così come aveva cercato di fare nutrendo l’ideale cavalleresco. Smette di pensare la sua vita diversa, si riconcilia con quello che è e, in modo inedito, permette a Dio di entrare in questa povertà.

Anche la povertà letta in questa prospettiva è da considerarsi quale condizione per rimanere disponibili a Dio, cioè per mantenere vivo il desiderio di Lui unica ricchezza per la propria vita. Nei lebbrosi Francesco scopre la preziosità dei fratelli, attraverso di essi si misura con il proprio limite e bisogno del Padre. È così che Francesco non si muoverà verso l’altro per cambiarlo ma per accoglierlo, è questa la logica minoritica.

Torna Francesco in modo ridondante a parlare della misericordia usatagli da Dio e da questa trova le ragioni del suo essere fratello e non rivale del prossimo. Lui si sente trattato con misericordia e così inizia a guardare la realtà che lo circonda.

L’uomo che non nutre un rapporto personale con Dio farà della sua religione una legge e il suo sguardo sarà colmo di giudizio per il peccato altrui. La fede è ben altra cosa, è scoprire lo sguardo amorevole di Dio per la propria vita e chi si sente amato per quello che è, povero com’è, non trova più ragioni per ergersi al di sopra degli altri. Dio incarnandosi si contamina, tocca ed accoglie dentro di sé la natura umana, non è più ammissibile separazione tra sacro e profano, ora il corpo del lebbroso diventa tempio di Dio. Francesco esorta i suoi frati ad usare misericordia e a “non pretendere che l’altro sia un cristiano migliore” (FF 163). È straordinaria la sottigliezza proprio perché ogni pretesa è da intendersi quale ricerca di dominio sull’altro.

Francesco crescerà in questo cammino di spoliazione e di sguardo autentico rivolto a Dio e a se stesso e così raccomanderà ai suoi frati: “Quando mi vedrete ridotto all’estremo, deponetemi nudo sulla terra e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio”.

Vuole sostare nudo Francesco, per un tempo congruo come ad indicare che la pazienza è lo stato dell’eternità, e cioè lo stare immersi in Dio perché in Lui sta ogni ragione di vita. L’uomo che si lascia amare da Dio acquista uno sguardo globale che non è fermo al segmento del momento presente, guarda con un orizzonte che ha come meta la comunione piena con Dio e per comunione non si intende un rapporto esclusivo ed intimistico, quello è proprio del dominatore e della logica di potere. Il desiderio di comunione è sempre accoglienza, sempre inclusivo dell’altro, l’amore più si amplia e più reca dolcezza, significa entrare nel cuore di Dio. È lo sguardo proprio del martire che dona la propria vita compiendo la volontà del Signore. Ad esempio don Pino Puglisi è morto per mano e volontà dei mafiosi ma lui ha compiuto la volontà di Dio perché ha amato sino alla fine.

 

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