La giustizia è questione di cuore

by Mauro 23. settembre 2014 00:22

      La questione della giustizia sociale è uno degli aspetti di rilievo che possono venire a destabilizzare la progettualità di una persona. Nel far fronte alle dinamiche di potere iscritte nel nostro sistema l’individuo potrebbe finire con il rinunciare ai suoi valori-ideali di riferimento per non soccombere.

     Ho esperienza di numerose persone che, venute in terapia, hanno raccontato il loro malessere, la condizione di iper-stress, dovuto alla corruzione riscontrata nel loro contesto lavorativo piuttosto che nella privazione dei servizi che dalle Amministrazioni dovrebbero essere garantiti ai propri cittadini. È possibile fronteggiare simile stato di cose appigliandosi ad una giustizia che stabilisce “a ciascuno il suo” così dome definito dal diritto romano? Oggi più che mai è parecchio difficile stabilire ciò che è “mio” e ciò che è “tuo”. Un profugo che arriva a salpare fino alle nostre coste ha il diritto di calpestare il “nostro” suolo? Un nascituro che ha poche settimane ha diritto di venire alla luce o la sua vita è in potere delle norme decise da una Nazione? Molte sono le questioni di giustizia che provocano il nostro tempo, giorni in cui l’opinione viene assunta a verità!

        La questione viene affrontata anche nel Vangelo (Mt 20, 1-16) della domenica appena trascorsa: chi può misurare ciò che spetta a ciascuno? Sono questioni importanti quelle che scaturiscono dal Vangelo di questa domenica in cui gli operai dell’ultima ora vengono retribuiti “per intero” dal padrone della vigna.

       I lavoratori della prima ora si ribellano perché “misurano” la giustizia ed il loro dovuto entrando in competizione con gli altri. Il rapporto tra gli umani si guasta quando misuriamo tutto nella logica del confronto o del dovuto, come se il proprio valore dipendesse dalla importanza o meno dell’altro!

       È la storia di competizione che attraversa tutta la Scrittura ferendo l’identità dell’uomo. Si pensi a Mosè che viene sconfessato quale “fratello” dagli altri ebrei, che però rispetto a lui sono schiavi, quando lui cerca di portare la giustizia con la sua forza uccidendo l’egiziano. Così è di Caino che non tollera la benevolenza rivolta ad Abele che aveva donato “del suo” a Dio, Caino non si era fidato di Dio per cui aveva dato un’offerta quasi a pagare un tributo al Dio considerato come un giudice.

        Qualcosa di analogo avviene anche a Giona che non accetta il perdono che Dio rivolge agli abitanti di Ninive, preferirebbe morire piuttosto che essere equiparato a loro nella misericordia di Dio. Ci fa problema essere trattati come un altro che giudichiamo peggiore di noi! Così è del fratello maggiore della parabola del “Padre misericordioso”, che si ribella alla festa organizzata per il fratello “prodigo” che torna dopo avere sperperato gli averi del padre. Così è degli amici e dei parenti di Francesco di Assisi che non accettano il suo donarsi ai lebbrosi rinunciando a ciò che per loro costituiva l’unico valido motivo di vita.

         Quale è il parametro di giustizia a cui obbediamo? È necessario che cambi il criterio di confronto, non è il fratello la misura/valore della propria vita ma la relazione con Dio. È il Suo prodigarsi per ciascuno a dare valore alla esistenza personale di ogni essere umano.

        Questo è il senso della preghiera ossia dello stare al cospetto di Dio. Il giusto si consegna a Dio e da Lui riceve, san Francesco di Assisi  e così tutti i santi hanno trovato nel rapporto con il Creatore il valore della loro vita. È il peccato proprio o altrui a ferire questa prospettiva. Quando si mantiene viva una ferita a motivo di un’ingiustizia subita, allora lo stare nella vita viene caratterizzato dal tentativo di farsi giustizia, cioè rivendicare giustizia per il torto ricevuto. È così che molti assumono la posizione di “vittima”, stando ripiegati su se stessi, per poi scattare in quella di “giustizieri” recriminando e mormorando contro l’altro. In realtà quella della mormorazione è una pratica che solo apparentemente dà un senso di soddisfazione, subito dopo lascia nella solitudine e nel malessere interiore. Vissuto che andrà coperto con ulteriore mormorazione! 

La vigna è simbolo del popolo di Israele, segno di fecondità l’uva ed il vino che se ne ricava. Il vignaiolo è Dio per cui il frutto scaturisce dalla sua cura, è il frutto dell’amore di Dio. Il padrone della vigna cerca lavoratori per la sua vigna ed affida loro la ricompensa, un denaro, tanto quanto basta per sopravvivere un giorno.

Interessante notare che ad ogni ora il padrone esce per chiamare, l’uscita di Dio è proprio l’incarnazione e questa è un’esperienza perenne che attraversa la storia dell’umanità di ogni tempo e la storia personale di ciascuno. In ogni ora Dio rivolge la sua chiamata all’umanità intera, il rapporto con Lui non è certo un part time o ci siamo a tempo pieno oppure non c’è relazione.

Il lavoro della prima ora è certamente più lungo e, pertanto, faticoso. Ma è già relazione con il padrone, è già stare nella sua vigna. A chi arriva dopo il padrone promette come paga “ciò che è giusto”, invita cioè a fidarsi della sua parola e del suo criterio di giustizia, chiede una fiducia ancora maggiore.

Agli ultimi chiede “perché ve ne state tutto il giorno così oziosi”, e loro rispondono “perché nessuno ci ha chiamati”. È misterioso il perché non siano stati chiamati da alcuno, di certo ora rispondono e a loro non viene promessa alcuna ricompensa. Sembrerebbe che per loro il fatto stesso di essere stati chiamati, l’essere stati riconosciuti, è già motivo di gioia e di ricompensa in sé. A Dio interessa che ciascuno possa ripartire, ritrovare la relazione con Lui per rimettersi in cammino.

Il lavoro nella vigna equivale a diventare cooperatori di Dio, gli operai della prima ora si erano focalizzati sul caldo e la fatica dimenticandosi di questa ricchezza che viene già dalla relazione con Lui. Così il figlio maggiore nel rimproverare il Padre misericordioso si era soffermato sul suo impegno quotidiano, sul duro lavoro portato avanti, senza assaporarne il gusto, la gioia di vivere nella casa del padre.

Il padrone riconosce un denaro per ciascuno cioè il quantitativo necessario per sopravvivere un giorno, così come era per la manna nel cammino dell’esodo. Dio ama per cui non può negare la vita ma desidera darla ed in pienezza! Chi si ripiega in se stesso vorrebbe fare attraverso le proprie forze senza fidarsi di Dio ogni giorno, ed è per questo che arriva a mormorare rimproverando perfino Dio.

Potrebbe forse Dio misurare il suo dono considerato che la sua misura è la grazia, cioè l’amore gratuito?  L’Eucarestia è il sommo Bene, la pienezza di sé che Dio dona ad ogni essere umano. Quale ricompensa è più grande dell’Eucarestia? Forse il Corpo di Cristo avrebbe un prezzo? No, il povero così come il ricco possono accostarsi all’unica Mensa eucaristica, lì tutti siamo uguali commensali allo stesso banchetto, nella stessa fila in processione per accogliere il Dono della vita, quella vera, quella piena, ed in sovrabbondanza.

È Dio a pagarci con la sua Vita, è questa la vera “paga” che Dio dà al suo popolo. Dono di Dio è la sua stessa vita. Paradossale che dalla bontà di Dio scaturisca l’invidia dell’uomo, si rimprovera Dio perché è buono con i più piccoli! Non può esserci una relazione umana, fondata sull’amore, senza gratuità. Il di più che dona il padrone è la Via che Dio propone all’umanità, è la via della paternità. Sembrerebbe che nostro mondo manchi di paternità e maternità nel prenderci cura gli uni degli altri. Ecco la missione del cristiano.

 

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