Dio può parlare se ci riconosciamo precari della vita

by Mauro 8. dicembre 2012 23:00

            In questa seconda domenica di Avvento meditiamo la necessità del cammino nella vita, ciascuno si sperimenta precario e bisognoso di risposte nella sua esistenza e la vicenda di Giovanni Battista viene a mostrarlo nella sua interezza.
           Partiamo dalla cornice del  Vangelo (Lc 3, 1-6) proposto oggi, esso riporta un elenco di nomi. Viene mostrato un indice storico ben preciso, come a dire che la vita e l’incontro con Dio è cosa molto concreta e non idilliaca (nel senso di fuga dalla realtà). La storia di un uomo, Giovanni, che appartiene ad un popolo, la storia di un popolo che è dominato da un altro popolo, i romani. Ed è di loro, dei potenti che inizialmente si parla. Il colpo di scena sta nel fatto che proprio quando tanti danno mostra del loro potere, ruoli e gerarchie che indicano il potere umano, Dio da nome a un bimbo che apparentemente non ha “titoli” per stare nella storia. Dio sceglie un uomo che non rappresenta questi “grandi” della terra, è un “piccolo”, si rivolge a lui e parla attraverso di lui.
       Dio disorienta perché non segue i “programmi ben ordinati”, e questo non per complicare le cose ma per restituire dignità e autenticità alla storia, che noi umani corriamo spesso il rischio di edulcorare, imprigionare.
       Giusto ieri parlavo con dei giovani MdS che dicevano di come oggi si tenda a fare programmazioni di ogni sorta prima di fare proposte pastorali e, cioè, cercare certezze per potere avviare percorsi. Mi raccontavano di una recente esperienza con un operatore pastorale che manifestava tutta la sua perplessità  nel potere organizzare una missione nel suo territorio perché si sentiva impreparato a reggere il dopo-missione: il ritorno di tanti giovani che avrebbero bussato alla porta della parrocchia per iniziare un cammino ed avere risposte a tanti interrogativi. La riflessione, in sintesi, era del tipo: ci dobbiamo preparare, forse non siamo pronti!
       È proprio questo il punto: noi “collaudati” cristiani rischiamo di perdere il senso della profezia evangelica, come se ogni azione pastorale dovesse essere il frutto di un calcolo fatto a tavolino. Intendiamoci la questione non è quella mettere in discussione tutte le competenze e gli strumenti pastorali, questi rimangono nobili strumenti, bensì rischiare di perdere la nostra identità di Chiesa!
        La Comunità in quanto tale è depositaria di un’esperienza,ha in dono la capacità di raccontare  e di riscoprire su chi poggia la propria fede. Non è un criterio di perfezione quello da presentare, un’apparenza bella per attirare presenze, non è questo il senso dell’Annunzio e del conseguente cammino cristiano.
        Ben vengano altri che arrivano a scomodare il quieto vivere ecclesiale, là dove si sperimenta. Ben vengano nuovi che ci questionano con i loro perché a cui non sappiamo dare risposta. Ben venga la necessità di condividere un cammino con altri che ci trovano impreparati, fragili, ma bisognosi come loro di ricercare la verità e la sorgente della vita. Questa è la valenza profetica che ci viene consegnata e che non può essere imbrigliata, è il vento dello Spirito che ci interpella “qui e ora” proprio nel mentre che passa.
        Ora Giovanni Battista è chiamato nella sua ordinarietà di persona comune, e per ascoltare ed annunziare si reca nel deserto. Il luogo del silenzio e della solitudine, il luogo ove le strade non sono ben definite, anzi il paesaggio intero muta a seconda dei venti, il luogo in cui non è facile orientarsi. 
        Inoltre la parola “deserto” deriva da una parola latina che significa “slegarsi”, sciogliersi da tutto ciò che impedisce il cammino.  È il luogo in cui attraverso l’esodo, il cammino, il popolo viene preparato all’incontro con Dio. Quando cammini per tanto tempo lasci perdere ciò che è inutile, ciò che appesantirebbe impedendo il cammino. Il silenzio permette di lasciare questa pesantezza, permette di entrare dentro ed ascoltare il ritmo, il battito del cuore. La veste sobria, è povero Giovanni, non si serve di esteriorità per attrarre a sé. Ha i fianchi cinti, è l’atteggiamento proprio dell’esodo, del cammino, così come del servizio, ricordiamo Gesù che con i fianchi cinti lava i piedi ai suoi discepoli. Può fare esperienza di Dio non chi è quieto ma chi sta in cammino, non frenesia del vivere ma ricerca e quindi ascolto quotidiano della sua Parola.
        Anche in quel tempo l’uomo aveva idealizzato la vita e la religione, la religiosità era diventato un modo per ottenere privilegi e non per stare in cammino. Il Vangelo inizia con due racconti di nascita, quella di Giovanni e quella di Gesù, la nascita di un figlio mostra, così come dice il racconto genesiaco, l’amore di Dio. Ciò che accade ad Elisabetta è un compimento del disegno di Dio. Il peccato di Adamo è riconducibile al non avere accettato di essere figlio. Ora Giovanni si definisce “voce” , lui da voce alla Parola di Dio, è il modello di ogni missionario.
       Giovanni riceve un nome, una identità data da Dio, il suo nome significa “grazia di Dio”, la stessa parola che dell’annunzio dell’angelo a Maria. Dopo il peccato l’uomo aveva trovato un nome comune del tipo “figlio di Zaccaria”, non direttamente collegato a Dio, “figlio di Dio”. Con Giovanni questa identità viene restituita, o meglio viene preparata la via affinché questa identità possa essere ereditata in modo pieno attraverso Gesù, l’unigenito che si fa primogenito. Ciascuno, dopo Giovanni, è chiamato a riscoprire il suo nome, a mettersi in cammino per scoprire in pienezza la sua identità. La missione cristiana in un certo senso è restituire ad ogni creatura la capacità di movimento, di mettersi in cammino verso una meta. L’annunzio cristiano è dare orizzonte, orientamento a questo esodo che appartiene ad ogni essere umano.

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