La vita è questione di Priorità e non di emergenze

by Mauro 2. marzo 2014 12:40

          In un tempo in cui si fa un grande abuso di ansiolitici, in cui lo stress viene ad essere riconosciuto come componente della società, capace di stimolare le capacità umane definendolo eustress, oppure di interferire sull’attività umana, cioè distress, compromettendo l’ordinario funzionamento fino ad arrivare alla patologia; in questo tempo risuona la Parola del Vangelo proposta oggi (Mt 6, 24 – 34) e condensata nel ridondante invito: “Non affannatevi”.

             Ma cosa c’entra il merimnao (affannarsi fino a soffocare il respiro del cuore, dividersi, fare le parti, morire) ripetuto per ben sei volte in questa pagina, con l’uomo contemporaneo?
        Ancor prima che la psicologia, l’esperienza religiosa ha indicato nella paura di morire l’ansia e l’affanno della nostra vita. L’essere umano, pertanto, entrerebbe in agitazione, diretto dalle sue paure, per darsi una parvenza di immortalità, attraverso un’immagine, uno status sociale o un altro espediente. È così che la vita si organizza secondo una continua emergenza dimenticando le priorità. È il vivere secondo priorità a garantire la propria vita, a dare cioè qualità e respiro alla propria esperienza quotidiana.
        Il discorso di Gesù ha una premessa: “Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a mammona”. Alla base dell’affanno sta la divisione del cuore, l’orientarsi verso direzioni opposte. L’affanno, pertanto, è da intendersi come tentativo di unificazione, di conciliazione, di un qualcosa che in realtà è inconciliabile. È come dell’uomo che cerca di restare ancorato alla riva tenendosi ad una corda ed al contempo tiene l’ormeggio della barca su cui vorrebbe salire per andare.
      Il termine “mammona” nella etimologia ebraica è vicino al termine amen, entrambi esprimono la fiducia in qualcosa su cui ci si appoggia, è il confidare in qualcosa. La questione non sta sul fatto che l’uomo è portato a confidare in qualcosa, ma sul che cosa è l’oggetto della mia fiducia!
       C’è una fiducia in ciò che dovrebbe dare “garanzie” alla propria vita e che si risolve con l’amplificare paure ed affanni. È l’esperienza dell’uomo che confida nei beni che si può procurare, il punto è che non ci saranno mai beni sufficienti, garanzie che possano assicurare l’immortalità. A riguardo san Francesco proibiva ai suoi frati di avere possedimenti perché poi, diceva, questi avrebbero comportato la costruzione di recinti e preoccupazioni per difenderli, ansie ed affanni per cose periture che cioè distolgono dallo sguardo volto al presente, a quel che accade e di cui bisogna prendersi cura, illuminato dalla fiducia nella eternità.
       Differente è la fiducia di colui che confida nel Padre e riconosce che la vita è un dono e tale rimane. È l’esperienza dell’uomo che non confonde la custodia con il possesso, ciascuno custode della propria ed altrui vita senza divenirne proprietario. Ad esempio è un’esperienza relazionale qualitativamente differente quella di un genitore che si sente custode ed accompagnatore del proprio figlio, rispetto a chi pretende di trattare il figlio quale propria immagine, persona a cui dare un’impronta senza rispettarne la libertà ed unicità.
    Lo stress secondo questa prospettiva è indice della mancanza di fede e di fiducia nel Padre. La mancanza di fiducia diventa ricerca affannosa senza limite, accumulo di beni e di esperienze che di fatto finiscono con il lasciare insoddisfatti. L’epoca delle passioni tristi è segnata da questo senso di mancanza, il troppo avere viene a guastare il gusto delle cose fino ad intossicare il cuore ed i reali bisogni. È il tempo delle dipendenze, la persona dipendente è quella che continua a cercare appoggio ma ciò che trova lo incastra sempre più privandolo di un effettivo sostegno. 
       Nel Vangelo di oggi Gesù invita a non affannarsi per “quello che mangerete o berrete, e neanche del vostro corpo, di quello che indosserete”. L’essere umano pretende di esorcizzare la paura della morte attraverso le faccende della vita, conquista quotidiana da difendere, competizione in cui l’altro è rivale.       Torna, ad esempio, la testimonianza di Chiara Corbella che ha sperimentato pienamente come solo l’oggi fosse in suo potere e non il domani. Si pensi a come ha portato avanti due gravidanze pur sapendo che i figli che portava in grembo sarebbero sopravvissuti, una volta nati, solo per poche decine di minuti a motivo di gravi malformazioni.  Lei ha rispettato l’oggi delle due creature e si è sentita loro custode portando a compimento la sua missione di mamma.
       Il cibo ed il vestito rimandano ai bisogni primari che sperimentiamo fin dalla nascita, il nutrimento ed il calore da parte di qualcuno. Il racconto della Genesi mostra come i progenitori hanno preteso di cibarsi da soli e, successivamente, hanno sentito il bisogno di coprirsi perché sperimentavano la vergogna di stare al cospetto di Dio. Questa pretesa ha guastato il gusto relazionale, cibo e vestito non sono più considerati il frutto della relazione con l’altro.
Il cambiamento sta nel fatto che cibo e vestito sono stati considerati come fine della vita, meta da raggiungere, mentre in realtà erano solo uno strumento. L’occupazione, il lavoro quotidiano, è propria di chi considera le cose quali strumento, la preoccupazione invece è di chi ha fatto del lavoro il fine delle cose (basti pensare a chi si affanna a lavorare anche la domenica per maggior guadagnare).
       Chi si affanna molto si stima poco, è un processo di grande svalutazione, la propria dignità viene asservita alla materia, mentre è la materia ad avere bisogno della dignità umana per esprimersi nella sua verità e bellezza. È così che si chiede alla materia quello che essa non può dare, viene esasperata la sua funzionalità, viene meno il rispetto del creato. Le cose finiscono con l’essere snaturate a motivo delle manie di grandezza ed onnipotenza proprie dell’uomo. Si pensi alla grande ferita del creato dovuta all’inquinamento che è frutto di questo delirio smisurato proprio dell’umanità.
      L’affanno è per il domani per ciò che non c’è, attesterà ancora Chiara Corbella che ciascuno ha a disposizione l’oggi e l’eternità. Affannarsi per quel che succederà significa non credere nell’eternità. Il peggio che possa accadere è la morte ma essa è stata già sconfitta, è il momento di incontro con il Padre.
Gesù continua ribadendo “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia”.  È una ricerca a cui dare la precedenza ma non è connotata da affanno. Ciascuno può scegliere di accordare la propria vita al registro dell’emergenza oppure sintonizzarsi con le priorità. Questa seconda prospettiva ci permette di coltivare la relazione con il Padre, di attendere ed accogliere il proprio dono, certo non ci proietta verso una continua corsa affaccendati rispetto alle cose da affrontare perché siamo indispensabili. Il criterio dell’emergenza risponde al nostro delirio di onnipotenza. Affannarsi per il domani equivale a vivere in ciò che ancora non c’è, è l’alienazione più grande, è come fare della propria esistenza una grande illusione.
      Dice san Francesco che chi non si affida è avaro, cerca garanzie e sicurezze fondate sull’accumulo. L’amore presuppone il perdere qualcosa, il consegnare quello che potrebbe essere un tornaconto, amore è non legare a sé, non possedere. È schiavo colui che si lascia possedere, la paternità di Dio invece è dono e riconoscimento, legge di libertà.
 

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