ma non sapevano che siamo semi!

by Mauro 5. marzo 2017 12:06

   L’attuale dibattito parlamentare in merito all’eutanasia è uno spaccato che ci mostra come la politica odierna manchi di un pensiero, di una visione antropologica da cui muoversi per leggere la realtà. Ci siamo già soffermati, in altri post, su come la tecnica generi nuovi paradigmi culturali che vengono a mutare la percezione che l’essere umano ha di sé nel tempo e nello spazio, e l’approccio a questo argomento ne è espressione.  

Zumare l’obiettivo sul trattamento del “fine vita” di Fabiano Antoniani per disquisire, poi, su leggi generali da applicare al particolare è davvero artificioso perché, a mio avviso, il fatto in sé rimanda in primo luogo ad una riflessione sul valore della vita e della sofferenza all’interno di essa.

Intendo bene che il tessuto culturale contemporaneo cerca in tutti i modi di esorcizzare il tema del dolore così come quello della morte e, di conseguenza, del limite umano. L’individuo è contemplato nella sua capacità produttiva o nel tratto estetico e socialmente affascinante.

Si assiste, cioè, alla negazione della fragilità umana colta come insostenibile e da evitare ad ogni costo. È comprensibile questo assetto nella prospettiva del “tutto e subito” o dell’ “usa e getta”, ove l’umano è schiacciato sul piano del bisogno immediato, quello che apparentemente può lenire ogni malessere. L’individuo il cui valore viene, così, equiparato a quello della merce di consumo, si trova spinto a ricercare continue strategie difensive per garantirsi l’elisir della lunga vita, e per dimostrare a se stesso e agli altri che il suo esserci in questo mondo ha un senso.

Eppure quando si nasce tutto diventa probabile e, paradossalmente, solo la morte rimane  il dato certo. Eluderla non significa risolverla, anzi potremmo supporre che tale pretesa fa organizzare il vivere sociale secondo la paura di morte e, quindi, con una particolare spinta all’euforia, allo sballo per non sentire, all’edonismo come piacere di superficie per non stare a contatto con i sentimenti profondi o, ancora, caricare di una malinconia irriducibile.

Oggi vengono a mancare le parole e la morte non si racconta, non è più un fatto naturale, è tabù e quando viene trattata lo si fa per una eventuale battaglia da condurre e non per il fatto in sé. È così che si parla di Dj Fabo in termini di “diritto di morire con dignità” o in quanto costretto ad  “andare all’estero per affermare la propria libertà”. Mi chiedo: cosa intendiamo per dignità e libertà? 

È sacra la vita di Fabiano, tale preziosità non è venuta meno  prima, malgrado la grave infermità, e non verrà meno neanche ora che ha lasciato il cammino terreno.

Riconosco, per chi non nutre un’esperienza di fede e cioè una relazione di dialogo con Dio, che la sofferenza e la malattia possono essere totalmente prive di significato, e solo d’impedimento alla realizzazione personale. Il cristianesimo offre a tutti uno spunto di riflessione, proprio perché nasce dall’offerta di un uomo che ha lottato sino alla fine per donare la sua vita sulla Croce. Lui ha compiuto la sua esistenza, trovando pienezza di senso, proprio in quel momento in cui tutto anziché finire trovava un fine!

È questa la prospettiva che segna la nostra riflessione. Il fine della vita è l’amore e la comunione, altrimenti saremmo tanti individui ego-centrati ed incapaci di relazione.

Il cattolicesimo, con questo, non professa certo la fede nella sofferenza o nella mestizia. Al contrario esorta a nutrire la gioia del vivere, quella che niente e nessun accadimento può strappare, in quanto frutto della relazione di tenerezza col Padre.

Scoprire l’interesse di Dio su di sé cambia la postura di vita, la persona assume un assetto esistenziale connotato da gratitudine e, perciò, da condivisione di quel che si è. La sofferenza, quale sintomo della precarietà umana, allora viene attraversata ma non nella solitudine (altrimenti chiunque ne rimarrebbe schiacciato), piuttosto guardando la meta e orientati al volto di Dio.

Questo rapporto precede la questione etica ed è pertanto che il cattolicesimo nella società contemporanea è quanto mai controcorrente. Il mondo laico ha un’altra etica e finalità di vita ben diverse. Il potere prima che il denaro, il successo o l’avere, sono valori cardini di quest’altro sistema per cui l’indice di valutazione della realtà viene fondato su di essi e il criterio di discernimento è ben diverso.

Non credo nell’utilità dei proclami e rispetto le scelte altrui, ma sono le testimonianze di vita ad avermi trasmesso questo insegnamento. Ho imparato, negli anni, che ciascuno conduce le sue battaglie, quelle che ritiene davvero preziose, ed è vero che l’esistenza resta lotta per tutti.

La differenza, però, è data dalle conquiste che si difendono, quelle per cui ciascuno decide che vale la pena spendere la propria vita lasciando perdere tutto il resto. Incredibilmente il cammino di ogni cristiano nasce da un’esperienza di morte o, meglio, dal passaggio che attraverso la morte battesimale arriva alla vita nuova.

Ogni credente è depositario di una promessa di immortalità, e tale qualità di vita l’ho riconosciuta in quanti hanno lottato fino in fondo. Ricordo l’inedita eloquenza di Giovanni Paolo II quando ormai gravemente debilitato a motivo del Parkinson continuava a farsi presente con tutte le sue energie anche se reso incapace di proferire parola. O, ancora, la testimonianza di don Pino Puglisi quando minacciato avrebbe potuto ribellarsi al sicario che gli stava annunciando la morte e, anziché aggredirlo, ha preferito donargli il suo ultimo sorriso. Mi permetto di citare, in ultimo, l’umile espressione della cara Rosaria, giovane sorella dei nostri giorni, che sfinita dalla malattia si è consegnata alla morte esortando, ciascuno, a fare la propria parte in questa vita. 

 

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