Quella che ha inizio oggi è una settimana speciale per i cristiani, una settimana caratterizzata dal racconto della passione morte e resurrezione di Gesù. Patire, morire e risorgere, sono verbi difficili da coniugare per l’uomo di ogni tempo eppure tutta la vita dei discepoli passa per questo continuo processo, dal patire al risorgere.
È una follia, mi rendo conto, quanto di più assurdo si possa pensare, la fede cristiana è una sfida per il sentire del nostro tempo, fin troppo abituato a razionalizzare e, al contempo, ad affidarsi a pseudo-verità, magari fondate su un romanzo che ha l’autorevolezza di un best seller e che, proprio per questo, assume criteri di scientificità.
L’evento dell’incarnazione contravviene al sentire comune. L’umanità sembra cercare il significato della propria esistenza attraverso una sempre maggiore emancipazione ed autonomia a cui mette la veste di “liberta”. Come a dimostrare agli altri che l’evoluto è colui che non ha bisogno di nessuno!
Abbiamo confuso l’autonomia, meta evolutiva propria dell’età adulta, con il bastare a noi stessi senza bisogno dell’altro. È così che i legami sono percepiti in una prospettiva utilitaristica, o comunque ego-centrati. Si perde sempre più il gusto del condividere, dell’apertura per donare all’altro, il rispetto del limite proprio di ogni rapporto: l’altro in quanto tale è differente da me e nel rispetto di questa distanza, continuamente contrattata, si gioca l’incanto di un’amicizia e dell’amore. Con la logica utilitaristica del “tutto e subito” invece perdiamo prospettiva, capacità di osservazione e di ascolto, come se si volesse contemplare la bellezza di una tela stando addossati ad essa, come a “mangiarla”.
Cosa c’entra questa risonanza con la settimana che ci apprestiamo a vivere? Quale libertà e limite vengono prospettati? Il cristianesimo è religione che orienta alla dipendenza?
Torniamo ai tre verbi iniziali, le rispettive coniugazioni ci aiuteranno ad entrare nel mistero di questi giorni, memoriale ed esperienza viva per un intero popolo. Già durante la sua vita Gesù aveva mostrato come è possibile passare per i tre verbi attraversando un’unica via: discendente ed ascendente.
Cos’è l’evangelizzazione, ancora oggi, se non questo processo di inculturazione, accoglienza dell’umano e dono di ciò che appartiene a Dio? Ma non c’è dono se prima non si è accolto l’altro, diversamente ogni azione pastorale si risolverebbe in pratica formale e religione legalista, cioè atto di supremazia nei confronti dell’altro che viene, così, strumentalizzato ai fini della propria esibizione e gratificazione.
Oggi l’evangelizzazione si scontra, proprio perchè va controcorrente, con lo sforzo sovrumano di autodefinizione ove è inammissibile dare valore al limite, alla fragilità, alla precarietà del quotidiano. La settimana santa mostra plasticamente l’essenza dell’evangelizzazione, che non è tanto un contenuto da raccontare ma l’espressione di un vissuto che si fa parola, che passa, cioè, per la testimonianza della propria vita. Non c’è Missione di strada se non c’è testimonianza di vita. Ma Testimoni di chi?
Gesù inizia il suo ministero pubblico, oggi diremmo “di evangelizzatore”, mettendosi in fila con i peccatori, con un’umanità disillusa e ferita fino al ripiegamento su se stessa. Gente che voleva immergersi nel battesimo al fiume Giordano, là dove il Battista annunciava un’opportunità nuova per l’umanità che voleva ritrovare Dio. Il Maestro non cerca di superare la fila, è con loro che vuole mescolarsi fino ad immergersi nell’abisso della loro vita, è da questa condivisione che inizia l’azione di Dio.
La domenica delle Palme ci proietta in questo stesso atteggiamento. Gesù entra a Gerusalemme su di un’umile cavalcatura, è il segno della mitezza e non della imperiosità e aggressività propria del cavallo usato in guerra. Lui dirà di sé che è “mite ed umile di cuore”. Mite è il non violento, cioè chi non utilizza l’aggressività per affermare le sue ragioni o la sua presenza. È colui che non vive in modo reattivo, violento perché aggredito. L’umile non consegna ad altri il potere sulla sua vita. L’appellativo rivolto a Giuda, "amico", è espressione di mitezza, l’amico rimane tale nonostante tutto.
La beatitudine riferita ai miti dice che loro erediteranno la terra. È interessante la ricompensa che gli spetta: la terra. Dice, cioè, di come il mite non lotti per avere una garanzia fondata sull’avere, movente che procura lotte intestine anche tra fratelli, bensì si fida dell’eredità promessa. L’eredità è dono e non pretesa.
Per Israele la questione della terra aveva, e continua ad avere, una peculiare importanza. Il popolo si identifica con l’appartenenza ad una terra, essa è la garanzia dell’identità e del valore di fronte a Dio: popolo di Dio perché abita nella terra promessa.
Ora il primo passaggio per entrare nella settimana santa è la rinuncia allo stile di conquista e l’assunzione di un modus vivendi nuovo: permettersi di sentire il senso del quotidiano con tutta la fragilità (propria ed altrui) che questo riconoscimento comporta.
Nelle ultime ore prima dell’arresto condivide con i discepoli la cena pasquale. È il modo che trova per accogliere pienamente i discepoli che lo seguono. In quella cena Lui li accoglie per quello che sono, un traditore, uno che rinnega, tutti fuggiaschi. Come è possibile accogliere chi non ha accolto il tuo bene?
Giuda lo chiama “Rabbì”, Maestro, è l’unico, gli altri lo chiamano Signore. Giuda sta dietro ai precetti, percepisce la religione come un fare cose, attenersi ad insegnamenti esterni. Come un bambino che segue delle regole a scuola motivato dalla paura e non dalla gioia di sentirsi voluto bene. Eppure Gesù lo chiamerà Amico, è l’unico a ricevere questo appellativo diretto. Come a dire che all’impermeabilità umana risponde la totale apertura di Dio, senza limiti. Dio lotta per mantenere la sua amicizia con l’umanità resistendo all’inimicizia della stessa umanità.
È questo il messaggio che viene da quell’ultima cena, è Eucarestia, dono gratuito che non ha prezzo. È per questo che ancora oggi la Comunità cattolica prima di accostarsi al Banchetto si riconosce “non degna”, è la conditio sine qua non per accostarvisi, riconoscere che quel Dono è fondato sull’amore e pertanto totalmente gratuito.
Alla luce di questo primo passaggio comprendiamo il senso della beatitudine che esalta il “povero in quanto allo spirito”. Felice è il povero nello spirito perché è un mendicante, cioè bisognoso dell’altro. È l’uomo che abbisogna e, come il mendicante, non ha qualcosa da dare in cambio, può solo chiedere. Il cristianesimo non si fonda sulla meritocrazia, il “fare cose buone” è il frutto dell’amore gratuito ricevuto.
Questo rovescia le prospettive di questo mondo, il cristiano può riconoscersi per quello che è senza darsi addosso ma riconciliandosi con il suo limite e fragilità. È anche una riconciliazione con il tempo e la propria storia. Molti trascorrono la vita ad attendere tempi in cui saranno migliori, il cristianesimo dà un senso nuovo al presente: è l’occasione di incontro con Dio a partire da quello che sono, è già pienezza. È questo l’atteggiamento per entrare a Gerusalemme e vivere l’esperienza pasquale. (prosegue)