Tornare alle "cose dell'anima"

by Mauro 26. marzo 2013 12:00

   Un giorno durante la lezione di un bravo docente di formazione psicanalitica, ho chiesto: ma rispetto all’azione di rinnovamento sociale il reale apporto dato dalla psicanalisi qual è? Forse la psicanalisi non rischia di isolare l’individuo dal contesto relazionale e sociale, disincarnandolo da quello che è la sua quotidianità? Quella domanda non ha trovato risposta, ma allora come oggi mi sembra necessario coniugare la visione critica con una proposta di significato (altrimenti la critica mossa per puro ""attivismo" non procura nessun cambiamento), coniugare la visione del contesto e dell’individuo con una proposta di significato che unisca individuo e contesto di vita, benessere individuale e benessere collettivo. Altrimenti continueremo a nutrire una società schizofrenica ove da un lato si propone una formazione fondata sull’apparenza e la logica dei consumi e, dall'altro, ci si lamenta per la crisi esistenziale e la tristezza dell’anima.
       Eraclito, filosofo greco vissuto cinque secoli prima della nascita di Cristo, così affermava: “Per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profonda è la sua essenza”.
       È importante tornare a pensare alle “cose dell’anima”, nel senso che è necessario leggere quel che accade nel nostro tempo a partire dal senso dato all’anima e, di conseguenza, alla conoscenza. La correlazione tra anima e conoscenza è legata alla psicologia che si definisce quale studio/discorso sull’anima, ma ancora prima alla religione.
        Psicologia e religione sono profondamente intrecciate, al punto che la rigorosa presa di distanza da tutto ciò che è etichettato come appartenente alla “religione” viene ad inficiare la scienza psicologica viziandola di una negazione che, a mio avviso, ha delle rilevanti conseguenze sulla efficacia del processo terapeutico. Altra cosa invece è definire i confini e rispettare i diversi ambiti di intervento. Non approfondisco a riguardo quanto già espresso bel post http://www.larelazionechecura.it/post/Bisogni-religiosi-o-psicologici.aspx   
        Tornando al discorso sull’anima bisogna scrollarsi di un retaggio storico che ha inficiato la cultura occidentale e che ha trovato definitiva chiarificazione a partire dal Concilio Vaticano II.
        “Anima” traduce il termine ebraico Nèfesh (נפש) che esprime la vita, indica cioè l'uomo quale essere vivente: « Dio il Signore formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici l'alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente» Gen 2, 27. La Bibbia tradotta dall’aramaico al greco ha trasposto il termine Nefesh utilizzando le categorie dualistiche di Platone, dandone quindi una connotazione diversa: psyché (ψυχή) quale anima separata dal corpo!
         Dunque l’ebraismo e la cultura biblica non esprimevano questa separazione, differentemente la mens greca separava anima da corpo e, in modo definitivo da Agostino in poi, questa prospettiva è stata assunta a riferimento anche dalla teologia.
         Non mi soffermo ora sulla prospettiva francescana che rispondendo all’intuizione del Poverello di Assisi ha nuovamente preso in considerazione la rilevanza del corpo quale luogo in cui Dio si rivela. Piuttosto voglio accennare all’orientamento in merito alla conoscenza dell’anima, quale oggetto della psicologia che in modo analogo potrebbe muoversi seguendo un registro dualistico.
         Quando nel 2006 James Hillman è venuto a Catania, invitato dall’Associazione Crocevia, quale grande pensatore del nostro tempo (morto nel 2011) ha palesato il rischio di una grave pre-comprensione ad opera di un certo approccio psicologico che ha relegato il concetto di anima a categorie quantificabili.  Con rigore scientifico, ma che di fatto è viziato dalla pre-comprensione di base, si è cercato cioè di conoscere l’anima come farebbe un osservatore neutrale, distaccato dall’oggetto, capace di misurare quanto gli appare.
          Da lì un concetto di “neutralità” che è diventato il punto di forza del rigore scientifico e di validità dei costrutti perdendo di vista che l’agire terapeutico si fonda su una relazione. Un metodo che si è sempre più raffinato arrivando a circoscrivere minimi segmenti di personalità da osservare in modo da avere misurazioni ancora più precise. Questo ha comportato la “vivisezione” (passi il termine) dell’ individuus ossia di colui che è, per natura, indivisibile.
         Si è andati ben lontani dalla posizione socratica che intendeva la conoscenza quale consapevolezza della propria ignoranza. Il “So di non sapere” era piuttosto il punto di arrivo della propria conoscenza.
         La psicologia presuppone un logos della psiche, ma questo è un presupposto che viene dato per scontato, ma l’interno dell’uomo è proprio così oggettivamente conoscibile? Posso davvero conoscere l’altro che mi sta di fronte? In realtà anche la manualistica diagnostica di impronta statunitense si sta aprendo ad una prospettiva qualitativa che già dovrebbe essere espressa nel nuovo DSM.
         Un ritorno al senso dell’anima comporta un rivedere i paradigmi della psicologia, così come di fatto propone la psicologia umanistica.

         La conoscenza psicologica ha luogo quando viene evocata da uno strare con l’altro, la psiche del terapeuta è immersa in una conoscenza e così anche quella del cliente è immersa in una conoscenza specifica. Il terapeuta conosce solo quando agisce, quando entra in relazione con l’altro e scorge la risposta frutto dell’interazione. Un grande pensatore italiano Pio Scilligo (morto nel 2009) proponeva, secondo questa linea, agli psicoterapeuti in formazione presso la sua scuola, di cogliere come la personalità dell’individuo si era organizzata in base alle interazioni significative della sua vita. Parliamo cioè dell’altro in divenire, non determinato da una causalità deterministica.
         La psicologia è un educere, un tirar fuori  e questo è espressione dell’anima. Essa non è pre-definita ma conoscibile solo in atto. E proprio in questo processo “oggetto” e soggetto non sono separabili, non esiste pertanto un terapeuta neutrale, o entra nel gioco relazionale o non è.


 

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