Teatroterapia e Psicodramma, "Le stanze ferite" tornano in scena

by Mauro 1. giugno 2013 14:00

   Lo spettacolo “La Succursale della Real Casa” che ieri pomeriggio è stato interpretato al Teatro Biondo dalla Compagnia Instabile formata dalla Comunità, personale e pazienti, del CTA Lares di Palermo, ha dato modo di percepire plasticamente l’umanità che sta dietro la “Follia”, o comunque a tutte quelle etichette diagnostiche che vorrebbero misconoscere l’umano dando solo riconoscimento ai sintomi e alle definizioni “di cura”.
          Le “stanze ferite” sono state mostrate facendo irruenza nella routine di chi, definito “normodotato”, si è dato il permesso di sostare per respirare un alito di vita colorata proprio dalla “follia”, quella che accomuna ogni essere umano, il desiderio di esprimere la vita senza omologarsi a sistemi precostituiti.
          Il Barone Pietro Pisani ieri rappresentava il protagonista di una storia vera, quella che nel lontano 1825 lo ha visto accogliere nella “Real Casa” uomini sofferenti ossia “malati di mente”. La pazzia trovava cittadinanza nel suo Ospizio ove fu proibita ogni misura coercitiva e favorita, piuttosto, l’espressione creativa dei degenti.
           Ricordiamo che ancor prima, nella seconda metà del 1700, un altro nobile, il marchese De Sade, utilizzava il teatro nel manicomio di Charenton per favorire la “cura” dei suoi ospiti, lo stesso fece di lì a poco l’abate Linguiti nel manicomio di Aversa. Il laboratorio teatrale quale metodo terapeutico oggi ha uno sviluppo oramai diffuso in tutto il mondo, anche se ancora pare troppo poco guardando la realtà del nostro Mezzogiorno.
            Un approccio che si integra bene con lo psicodramma anche se è da distinguere dalla Teatroterapia. Moreno infatti osservò il mondo teatrale ma il suo metodo fu del tutto innovativo.  Lui si accorse che la tragedia greca veniva a rappresentare la vita così come avrebbe dovuto essere e non nella sua realtà storica, e pertanto stimolava negli spettatori una vera e propria catarsi.

             In realtà l’effetto dell’azione catartica esercitato dalla tragedia non era del tutto chiaro: se da un lato si pensava che essa suscitasse una liberazione dalle passioni che venivano proiettate sulla scena, dall’altro la sua azione veniva letta come possibilità di assumere le passioni entro una comprensione razionale. In ogni caso, al di là delle ragioni, l’effetto di liberazione dalle passioni operato dalla tragedia greca era un dato di fatto.
             L’impostazione che diede Moreno fu diversa e già la costruzione di un teatro nel 1919, con un palcoscenico di forma circolare al centro, manifestò un nuovo modo di intendere la rappresentazione scenica. Il “teatro della spontaneità” veniva ad essere un teatro catartico proprio per gli effetti che il copione improvvisato veniva ad avere sugli attori e sugli spettatori.
             Moreno parlò di “catarsi d’integrazione” frutto dell’apprendimento generato dall’azione scenica. Il protagonista, cioè, viene a riappropriarsi del potere che aveva consegnato alle sue fantasie, ai conflitti irrisolti, agli stati di blocco. Ad essa corrisponde una “catarsi di gruppo” frutto del rispecchiamento col protagonista.
             In questa prospettiva si intravede la forte componente sociale presente nell’intuizione di Moreno. Come lui intendeva, attraverso il suo metodo, contribuire al riequilibrio del ruolo della persona all’interno della società. Egli, cioè, intese l’agire scenico non tanto come una scarica motoria, con effetto catartico, ma come uno stato emotivo che veniva tradotto in azione. Per cui la catarsi, in Moreno, è da intendersi come conseguente al culmine emozionale, dove il protagonista della scena si libera delle sue resistenze sperimentando nuove modalità d’agire e scoprendo in esse nuovi significati. Di fatto lui non si occupò dell’analisi dei conflitti che stanno a monte delle resistenze, volle trasformarli attraverso l’azione, l’espressione spontanea e creativa volta ad arrivare alla scoperta di nuovi significati e modi d’essere.

             Elaborò  così un nuovo metodo per lavorare con il protagonista-attore; la sua prospettiva riassumeva sia quella greca in cui lo spettatore subisce una catarsi passiva nel vedere la tragedia, sia quella religiosa in cui la catarsi avviene in primo luogo nell’attore, cioè in colui che vive in prima persona il suo credo religioso.

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