Giornata assolata nel cuore di Danisinni, i ragazzi che armeggiano con un bidone di ducotone e nell'arco di mezz'ora la piazza riacquista un colore che pareva appartenente ad un lontano passato, perchè due mesi di confinamento paiono anni come se si fosse creata una demarcazione tra il prima e il poi. Siamo nella via di mezzo, ancora non del tutto fuori ma neppure passivamente dentro, ci siamo e questo è il tempo di transito.
Mi ha sorpreso constatare per due mesi l'assenza dei ragazzi da questo spazio, cuore del rione. Loro che fin dalle elementari sono stati tacciati di iperattività, per così tanti giorni sono rimasti all'interno delle loro case seppure di pochi metri quadri e sovraffollate. Sì, perchè qui a Danisinni in 40mq stanno almeno sei persone.
Improvvisamente sono tornati in piazza e, procurato un pallone, senza troppi discorsi si sono catapultati in campo. La prima cosa che hanno fatto è stata quella di segnare con il ducotone il perimetro del campo e dell'area di rigore, loro con un gesto altamente simbolico hanno definito nuovi confini questa volta all'aperto e per stare dentro a giocare, non da soli ma insieme ad altri!
Stanno reagendo i nostri ragazzi e ciò non equivale ad avere dimenticato i giorni appena trascorsi o il pericolo di un virus che continua a vagare minaccioso, stanno solo esprimendo il bisogno di non rimanere schiacciati da quel contatto così angosciante che in questo momento non ha bisogno del pensiero per trovare quiete ma del movimento, dell'interazione fisica con gli amici di sempre, i compagni di gioco per due mesi visti attraverso un monitor o dal balcone, così distanti seppure tanto vicini.
Guardando il loro fare entusiasta osservo come energizza pure gli adulti che stanno attorno come se il mondo giovanile avesse la profonda capacità di esorcizzare il senso di fragilità e di impotenza speriementato in questi giorni di estrema precarietà. I genitori, pure loro sono rimasti a casa costantemente inchiodati al bisogno basilare di cibo e a quello di prospettiva per pensarsi in grado di garantire il necessario alle proprie famiglie. È un senso di smarrimento che rischia di scivolare nello stato depressivo e di conseguenza nella fuga in dipendenze utili a lenire il vissuto di un momento.
La nostra Città vive di lavoro nero, il cosiddetto “informale” tollerato perchè comodo a tanti ma che di fatto lascia senza garanzie chi si trova all'improvviso senza nessun ammortizzatore sociale, né cassa integrazione (qualora venisse distribuita) e neppure reddito di cittadinanza, lavoratori anonimi non censiti ma basilari per l'economia del nostro Paese.
Il lockdown ci ha presi alla sprovvista trovandoci impreparati, nessun risparmio, solo un quotidiano che è stato senza indugio sospeso. Mi torna alla mente l'immagine, ma solo per assonanza, dello scenario visibile negli scavi di Pompei, come una foto istantanea al momento dell'eruzione del Vesuvio nel lontano 79. Solo che noi siamo rimasti vivi e questo è già motivo di gratitudine ma è pure necessario affrontare il tempo a venire ritrovando la dignità del quotidiano fatta di lavoro e di famiglia, di sosta e di gioia per il dono della vita.
È di prossimità e di cooperazione che la gente ha di bisogno perchè da soli non si va da nessuna parte ma è ancora troppo presente lo slogan “sta distante se mi vuoi bene”. Siamo di fronte ad un doppio messaggio difficile da elaborare perchè se da un lato si sente forte l'esigenza di ritrovarsi per pensare insieme il futuro ed essere di supporto gli uni per gli altri, al contempo il pericolo del contagio non è scampato e il conflitto confonde, continua a logorare interiormente.
È tempo di una nuova custodia, non un muro che isola ma un confine che protegge e permette di custodirsi per custodire. Il confine favorisce l'apertura, ha delle porte da cui entrare ed uscire per rimanere in relazione pur mantenendo la propria identità individuale. Tale dignità va difesa a tutti i livelli e per tutte le fasce di età ed è questa la grande lezione di questi giorni.
Il lavoro che schiavizza lasciando in mano ai caporali di turno, è gravemente spersonalizzante fino a cosificare l'essere umano. In modo analogo la didattica trasmissiva e non promozionale, passivizza gli alunni lasciandoli su un piano subordianto e, così facendo, non impareranno a sognare in grande, non si reputeranno all'altezza di osare e si accontenteranno del poco. Lo stesso vale per la catechesi nozionistica che formerà bravi cristiani sul piano morale, di un giorno, ma priverà dell'esperienza della fede frutto di una relazione che apre alla vita interiore e permette di attraversare le tempeste della vita.
Il confinamento dunque ci pone dinanzi ad un bivio: o soccombere anestetizzando il quotidiano oppure destarsi dal sonno e scendere in campo. Nel mentre, ora che ci penso, prendo un po' di ducotone e vado a tracciare il perimetro della chiesa in uno spazio libero giù in fattoria. Lì dalla prossima settimana vi accoglieremo la Comunità per celebrare Eucarestia. Senza nutrimento è impossibile il cammino della vita, siamo fatti per la comunione.