“Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.
Questo passo evangelico (Gv 12, 20 ss.) che la Comunità cattolica medita la prossima domenica di marzo, mi ha sempre interpellato per il paradossale significato. Oggi mi porta a ricordare la figura di un caro fratello cappuccino conosciuto a Roma durante gli anni di formazione universitaria. Luigi Padovese, assassinato il 3 giugno 2010 all’età di 64 anni mentre lavorava in Turchia nel dialogo con l’Islam e nel servizio alle diverse comunità cristiane turche di cui dal 2004 era vescovo.
Gesù utilizza la metafora del chicco di grano quando, salito a Gerusalemme per il culto, viene contattato da alcuni greci. Loro sono degli stranieri che hanno sentito parlare delle sue opere per cui hanno chiesto a Filippo, anche lui di origine greca, di poterlo vedere. Lui risponde dicendo che è giunta la sua “ora”. Fa riferimento cioè all’ora in cui mostrerà in pienezza il volto Dio.
Loro cercavano di vedere chi aveva compiuto opere prodigiose, come a riconoscerne l’onnipotenza e Lui risponde indicando un momento particolare in cui questa onnipotenza potrà essere mostrata in modo pieno, il momento in cui sarà rivelata la Gloria di Dio. Nel pensiero ebraico per “gloria” si intende il valore, il peso, quanto vale in base al suo esserci. Significa comprendere la Verità delle cose e non le apparenze.
Gesù utilizza la metafora del chicco di frumento che, se caduto in terra, muore e porta molto frutto. Così la gloria di Gesù non sarà la morte in croce ma il portare molto frutto dando la sua vita per tutti. È l’esperienza del mistero pasquale, che non è un annullamento per finire, ma il darsi all’altro per amore. Gesù in questo modo permette di superare la paura della morte, una paura che altrimenti verrebbe a determinare la direzione della vita inchiodandola ad una logica di chiusura, egoismo, indifferenza verso l’altro, lotta per salvaguardarsi andando anche a scapito degli altri.
Aggiunge: “se il chicco di grano non muore rimane solo”. Il non volere morire è la via per costruire un percorso di solitudine, di distanza dagli altri, di terribile vuoto relazionale. È la logica di chi non rischia l’avventura della vita e rimane sulle difensive, a nascondersi fino a quando tutto non sarà finalmente finito. È il modus vivendi del perfezionista, colui che cerca di essere perfetto, di non sbagliare mai, di controllare se stesso e gli altri per non apparire debole.
Ma la vita si nutre di incontri, di riconoscimento reciproco che veicola l’affetto. È l’amore che guarisce anche dal male della morte. Ciascuno giunge alla propria “ora”, sono i momenti in cui è necessario prendere una decisione, e da lì parte la direzione della propria vita. La decisione avvia un percorso e quello che sarà il dopo andrà a confermare o meno quanto si è deciso.
Essere di fronte a Dio nella Verità è un’esperienza unica, ma è venuta l’ “ora” in cui Dio deve mostrare il suo valore: dare la sua vita. Gesù con questo discorso afferma che la natura di Dio è l’amore, dare se stesso e non tenere per sé. È la capacità di spezzarsi a mostrare la natura di Dio, Lui porta frutto per mezzo della sua morte.
La vita non è questione di conservazione ma di dono, se trattieni il fiato muori, se espiri allora vivi. Ricevere e dare è una legge naturale per garantire la qualità della vita. Chi è egoista cerca di strappare la vita anche agli altri, cerca di dominare di mostrare la sua onnipotenza per vivere. L’egocentrismo primario va bene nei primi anni di vita ma poi è necessario scoprire l’altro, dare spazio al suo esserci altrimenti la vita appassisce.
Interessante notare come oggi la continua frenesia in cui viviamo vorrebbe mostrare un estenuante tentativo di riempire la vita attraverso tante cose da fare. Più facciamo e più ci sentiamo vivi, è un rischio che corriamo tutti. Ho compreso in quest’ultimo periodo in cui mi sono trasferito in un piccolo centro dell’agrigentino che il so-stare è un atteggiamento fondamentale per entrare nel processo della vita.
La bellezza che troviamo nel mondo è data da questo atteggiamento proprio di Dio che fa spazio all’altro, che crea e gioisce nel contemplare la bellezza. È l’atteggiamento simile a quello di un genitore che gioisce nel vedere che i figli elaborano in modo del tutto unico ed originale la loro esperienza di vita fino a percorrere strade inedite, anche questo può comportare separazione, differenziazione nelle prospettive, il travaglio proprio del cammino della vita.
Ancora la risposta di Gesù indica ai suoi interlocutori che non si nasce per salvarsi da soli, ma per vivere nella relazione fiduciosa con l’Altro. Lui stesso è turbato dalla difficoltà di quest’ “ora”, è un turbamento che esprime tutto il travaglio del vivere umano, il dubbio che si insinua attraverso l’istinto di conservazione. La risposta di Gesù è: Abbà, Papà. Si affida al Padre che è nei cieli, la vita abbisogna di fiducia e relazione filiale, questo non per rimanere eterni infanti ma per spingersi oltre, come una base sicura da cui partire, sapendo che uno sguardo da dietro sorregge la propria vita.
La Gloria di Dio consiste nell’essere innalzato sulla croce, Lui è visibile proprio lì. Come il seme che porta frutto morendo, aprendosi, così Lui porta frutto lasciandosi guardare in croce. Sostenere lo sguardo che abbiamo stando ai piedi della Croce significa accettare questa logica, questo modo di mostrare il proprio peso, la propria identità: amare sino alla fine. La Croce mostra che Dio non è potente sopprimendo tutti ma mostra la sua onnipotenza amando più di tutti.