Le parabole sono un concentrato di sapienza e rivelano un senso recondito delle cose che va aldilà dell’immeditato e del pensiero logico concreto. Senza capacità di simbolizzazione, infatti, la vita rimane su un piano meramente orizzontale ed immediato, senza aprirsi all’orizzonte profondo di cui l’uomo è capace. Proprio in questa domenica, quarta di Quaresima, troviamo una pagina del Vangelo (Lc 15, 11ss.) in cui Gesù dona una descrizione parabolica per ritrovare il gusto ed il senso della propria vita.
Gesù attorniato da scribi e farisei che mormorano giudicando Lui e le persone che gli stanno attorno, racconta diverse parabole che hanno come traccia comune la misericordia, il fare di Dio verso l’umanità e, soprattutto, verso gli ultimi cioè verso quanti sono smarriti. È la ricerca di un padre che non ha quiete fino a quando non ritrova quel che si è perduto.
Questa parabola narra di “un uomo che aveva due figli”, interessante notare la premessa: lui li riconosce come figli ma loro non lo indicano come padre, è solo “un uomo”. Questo denota un grande potere che il padre consegna loro, infatti ciascuno ha il potere di riconoscere l’altro e trattarlo quale figlio, fratello, sposo o amico. Ma non è in nostro potere far sì che l’altro ci riconosca padre, fratello, sposo o amico, ciò spetta all’apertura degli occhi dell’interlocutore.
La dinamica della vita a volte comporta un’attesa estenuante, il “rimanere” nell’amore ha un prezzo alto ma certo sostenibile quando si fa esperienza della grande paternità di Dio. È lì che ogni persona può trovare la forza per motivare il dono gratuito.
Il figlio minore si rivolge a lui dicendogli “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Lo chiama “padre” ma in realtà non lo sta riconoscendo come tale, sta solo cercando un rapporto utilitaristico.
Non ha una relazione con lui, tanto da pensarsi in modo solipsistico cioè totalmente centrato su di sé. È quel che accade quando i rapporti umani sono mercificati e l’altro è riconosciuto a seconda della convenienza che se ne ha. È l’uomo che ha una visione meramente orizzontale e la sua vita è volta agli appagamenti di un momento, è colui che brama il possesso quale esperienza di libertà.
Se da un lato il desiderio profondo di autonomia e libertà è autentico, dall’altro è falsa la modalità per raggiungere la meta e, come accade in questi casi, la modalità finisce con il coincidere con la meta.
È l’uomo schiavo di un pensiero concreto, che non ha la capacità di elevarsi e fare della propria quotidianità un costruire verso una meta più alta, un orizzonte che dà senso ad ogni cosa. Si pensi, ad esempio, all’atleta che sostiene le tante ore di allenamento in vista di un traguardo finale. In quel caso la modalità non è gratificante al momento, ma il pensiero della meta è motivo di costanza ed impegno.
È sorprendente la risposta del padre, lui “divise tra loro le sue sostanze”. Dona cioè la sua vita ad entrambi, sebbene questo significhi un rischiare la propria di vita (in realtà l’eredità spettava solo dopo la morte altrimenti il padre non avrebbe avuto di che vivere) o rischiare di essere traditi.
Lui, però, risponde al desiderio di libertà e di gioia dei figli (anche del figlio maggiore che non ha chiesto niente), lo sostiene malgrado il figlio non lo stia riconoscendo. È così che l’uno inizia il grande viaggio verso lo smarrimento, l’altro invece rimane a casa a lavorare fedelmente, ad osservare meticolosamente i suoi doveri. A volte è preferibile che l’uomo sbagli in cerca di trovare la direzione autentica anziché rimanere fermo e ligio ai doveri, per paura di sbagliare!
Si troverà in situazione di bisogno il figlio minore, una volta perso tutto avrà fame. Proprio le situazioni di bisogno sono quelle che fanno attivare in profondità la persona ed è per questo che i bimbi non vanno viziati cioè “ipernutriti”, altrimenti sperimenteranno la noia del vivere e la mancanza di desiderio.
La società bulimica del nostro tempo, invece, orienta l’individuo alle tante dipendenze e il desiderio è estinto e il processo di umanizzazione è bloccato.
Lo stato di bisogno per quel figlio diventa l’occasione per “rientrare in se stesso”, recupera la memoria del padre anche se di fatto lo coglie quale giudice della propria vita, padre a cui asservirsi. È così che lo vedremo sulla strada del ritorno, convinto di potere dare un prezzo all’accoglienza, consegnare la propria dignità per essere accolto quale servo del padre.
Sorprendente l’incontro, il padre che già lo attende gli corre incontro e “gli cade al collo”. Lo riveste della sua regalità, gli dona l’anello e cioè “il potere” del padre (l’anello portava il sigillo paterno e quindi l’autorità di firmare atti a nome del padre). È l’agire della misericordia: fare spazio nella propria vita malgrado le offese ricevute, accogliere e generare restituendo dignità e capacità di vita, gioire e fare festa condividendo la bellezza del dono ricevuto.
È una logica sconvolgente quella cristiana, a tal proposito ricordo nitidamente la reazione di un giovane in un villaggio albanese, molti anni fa, quando a questo commento ebbe a dirmi: “ha sbagliato, non è giusto!”. Lui che veniva dall’oppressione della dittatura non riusciva a cogliere il perché di tanto perdono, secondo la sua logica allo sbaglio doveva necessariamente seguire una adeguata punizione.
È vero il cristianesimo è ingiusto, i conti con Dio non tornano mai! Sappiamo, però, quanto già la lontananza da Dio sia una enorme sofferenza ed è impossibile protrarla quando la persona si riaccosta al Signore. A quel punto è necessario fare festa, è l’immediata conseguenza della comunione.
Il figlio maggiore, invece, non entra, lui è ferito per l’ingiustizia subita, dice “tuo figlio”, non riconoscendo il fratello. Così coglie il bene operato dal padre, come se questo gli togliesse qualcosa. È quel che accade all’uomo religioso che manca di fede e che non vive una vera relazione con il padre. Rompere la relazione con il fratello equivale, infatti, a rompere la relazione con il padre.
Ridurre il cristianesimo a religione equivarrebbe a farne una questione di pratiche religiose, Messe e processioni, rosari e penitenze, ma questo non direbbe niente in merito al rapporto con Dio. Tentazione spirituale, in tal caso, sarebbe quella di pensare alle proprie opere quali appagamenti per Dio, come se Dio avesse bisogno di tali pratiche per garantire la sua benevolenza.
La religione segnata dalla fede, diversamente, implica una relazione sponsale con Dio, un legame che favorisce il discernimento sul da farsi, una preghiera che apre all’incontro con il prossimo e che riporta l’umanità a Dio. L’uomo religioso cerca se stesso, l’uomo di fede, invece, dona se stesso a Dio.
Tornando al principio della parabola, quanti stanno a mormorare guardando Gesù di fatto sono presi dai loro criteri di giudizio, sono chiusi in se stessi e nelle loro opinioni senza aprirsi all’ascolto di Dio.
Il grande insegnamento della parabola richiede un’apertura di sguardo, un riorientare la vista per accogliere il grande abbraccio del Padre sino a lasciarsi riconsegnare, da Lui, alla vita, capaci di condividere tanto Bene ricevuto con l’umanità di ogni giorno.