Quando ci si basa meramente sulle proprie competenze di fronte ai limiti della esistenza prima o poi si rischia di crollare. Ciò perchè andiamo incontro a fallimenti ed insuccessi, a risultati inattesi malgrado tutte le previsioni. Proprio in quei momenti si rivela quale è il vero punto di appoggio del nostro vivere.
Tutti abbiamo bisogno di un appoggio, di un fulcro da cui partire per elevare i carichi e tollerare le frustrazioni. Chi farà della paura il principio organizzativo della propria esistenza, sarà sempre più centrato su se stesso per apparire forte. È la logica dei nostri tempi, quando una nazione o un continente pretende di definire i confini escludendo l'altro e affermandosi sul più piccolo. La prospettiva individualista su cui sta strutturandosi l'Europa è implosiva, quando l'unità è retta da una forza centripeta il sistema rischia di ammalarsi gravemente.
Il principio unitivo non può essere l'economia o il potere, questo è quel che accade in sistemi criminali e sappiamo bene come essi, ad esempio la mafia, producono patologia. Chi ne fa parte spegne l'emozione del vivere e la relazione è centrata sulla forza intesa come “disposti a tutto”, ma questo esprime l'impossibilità d'amare.
Sì, l'amore genera legami e questi dicono della vulnerabilità dell'uomo e nel malavitoso i legami sono funzionali al potere e, perciò, quando mettono a repentaglio la propria posizione ecco che vengono eliminati!
Solo la persona che si riconosce vulnerabile può trovare la sua forza perchè si apre all'altro, l'individuo che vuole farsi forte da sé in realtà è fragile e rischia di frantumarsi perchè privo di amore.
L'amore, dunque, è possibile solo quando si sposta il centro di gravità, quando si smette di affermare se stessi e la propria vita rivela un altro.
Nella Parola che meditiamo questa domenica troviamo il profeta Isaia che si riconosce “uomo dalle labbra impure” e proprio per questo sarà reso profeta in quanto riconoscerà che non ha una parola che può salvare il mondo, non è lui la fonte di tutto ma deve attingere altrove.
Paolo stesso si riconosce come un “aborto” e per questo visitato dalla presenza di Dio che ne farà un grande apostolo. Ambedue sanno che non possono riuscire da soli ed è perciò che diventeranno grandi annunciatori di Dio.
La scena evangelica è analoga, Gesù incontra Simone e gli altri soci dopo una notte di pesca andata a vuoto, un estenuante lavoro fatto per nulla e ora stanno riassettando le reti. In quel frangente in cui sperimentano la loro impotenza Lui li visita ed inizia a donare la Sua Parola, poi li inviterà a prendere il largo e a gettare le reti.
La risposta di Pietro è soprendente è l'osare proprio della fede: “ma sulla tua parola getterò le reti”. Non c'è una logica che tenga, non c'è un calcolo ben ordinato ma fiducia. L'atteggiamento di fede, però, poggia sulla gratitudine e cioè sul sapersi amati da Dio, sul riconoscere che quel che siamo è opera Sua.
Certo l'individuo dei nostri giorni riterrà di essersi fatto da solo e che tutto gli è dovuto, si affermerà di fronte all'altro entrando in compezione, non avrà minimamente consapevolezza che si vive solo da figli. Ciò non equivale ad infantilismo ma a riconoscere che non si è onnipotenti ma bisognosi dell'Altro e questa responsabilità genera discepoli.
Il cammino che tracciamo nella vita rivela chi stiamo seguendo, la direzione dei nostri giorni quando è rivolta a Cristo mosta a chiare lettere che non viviamo più per noi stessi. Ciacuno, dunque, diventa lettera di Dio per questa umanità, sale che reca sapore, lievito che sostiene e differenzia.
È sufficiente una minima dose per dare sapore ed illuminare questo tempo. Una piccola luce, sappiamo bene, resiste all'intensità del buio di un'intera notte.