Si assiste, ai nostri giorni, che molti cercano nuovi profeti, guru a cui consegnare la propria vita. È così che troviamo un aumento esponenziale di persone che mensilmente spendono parte dei loro averi per pagare maghi e fattucchieri o, ancora, per seguire guide a cui prestare obbedienza cieca.
È un processo che procura una, sempre maggiore, deresponsabilizzazione, la ricerca miracolistica viene assunta ad illusorio rimedio anziché affrontare il travaglio quotidiano.
La società dei consumi, inoltre, spinge verso la patologia dell'anima in quanto schiaccia l'umana esperienza sul piano orizzontale, economicamente quantificabile, misurando la felicità in termini di possesso e potere, perdendo la centralità della relazione e, in particolare, della relazione verticale. Anche in questo caso, sovente, viene proposta una meta illusoria di felicità in genere legata allo status sociale, all'avere per potere apparire, ad “una vincita che cambierà la vita” e, quasi, l'invidia o la gelosia altrui è assunta a criterio di realizzazione per il traguardo raggiunto.
È della distorsione delle relazioni che stiamo parlando, e quel che è vitale ossia i rapporti autentici e scevri da pregiudizi, viene sostituito dal culto delle apparenze e dell'affermazione di sé.
In tale scenario le parole perdono il loro significato relazionale e si reinterpretano in modo manipolativo. È così, ad esempio, che il concetto di “vicinanza” viene associato alla connessione web per cui ci si sente molto vicini ad altri che sono a distanze molto lontane; mentre i vicini, anche i coinquilini, vengono percepiti lontani proprio perché ciascuno si isola davanti al suo monitor.
Il Vangelo (Mt 23, 1-12) di questa domenica restituisce criterio di significato alle parole e rimanda alla priorità relazionale all'interno della quale, semmai, scorrono i contenuti.
Troviamo Gesù di fronte a scribi e farisei che si sono resi stanziali attorno a norme che vorrebbero dare conoscenza (e appropriazione) della vita spirituale.
Lui attacca la loro performance ipocrita proprio perché non trova riscontro nella vita ordinaria. Nel mentre che il popolo viene schiacciato dalle loro doverizzazioni, scribi e farisei continuano a vivere per apparire e, così, essere riconosciuti.
Usano la Parola di Dio per giudicare e padroneggiare il popolo che genuinamente cerca di servire il Signore. Il loro Annuncio è schizofrenico, dicono ma non fanno, credendo che basta pronunciare una parola per realizzarla nella propria vita. È il modus operandi di molti predicatori, politici, o venditori dei nostri giorni.
Sappiamo bene come la Parola abbisogna di tensione volta alla sua realizzazione per essere autorevole. Ciò presuppone umiltà da parte di chi la porta, altrimenti nell'arroganza il dire è solo repressivo e dimostrazione delle proprie ragioni per manipolare l'altro. Nei secoli, anche per questo motivo, si sono succedute guerre di religione.
Gesù si ribella a quell'Annuncio che vorrebbe fare della fede in Dio una serie di precetti da rispettare senza nutrire alcun rapporto con l'Autore della vita, si tratta di ricette senza relazione e, cioè, trasformare la fede nell'acquisizione di soluzioni preconfezionate senza mettersi in gioco in prima persona.
In realtà solo quando si scopre la relazione col Padre la via segnata dai precetti acquista un suo gusto in quanto occasione per vivere il dono di comunione.
Diverso è il caso di chi vive per se stesso e, pertanto, cerca di mostrarsi ed essere visto dall'altro. Il privarsi dello sguardo di Dio equivale ad immettersi in una ricerca spasmodica di riconoscimento, ma l'umano mai potrà appagare quella sete profonda.
Gesù ribadisce che il Maestro è uno solo, tutti gli altri si è discepoli. Questa puntualizzazione riallinea i rapporti con il prossimo in quanto ciascuno comprende che non è chiamato a dominare l'altro o addirittura a possederlo.
La gratitudine verso il Padre, inoltre, da equilibrio ai rapporti umani in quanto fonda il riconoscimento della propria vita, e ciascuno torna a ridimensionare il suo ruolo di “salvatore” del mondo o la sua ricerca in una persona a cui assoggettare la propria vita.
Proprio Gesù mostra il suo essere Rabbì e Messia chinandosi fino alla lavanda dei piedi e alla morte in Croce. Nel suo agire rimarrà sempre in dialogo con il Padre, l'ascolto e l'azione sarà la testimonianza di comunione che Gesù donerà all'umanità intera.