Ma la Sapienza da dove si trae? (3)

by Mauro 2. marzo 2013 22:33

      Ultimo post dedicato al libro di Giobbe. Di fronte al travaglio di Giobbe interviene un secondo amico di nome Bildad. Lui quale ricorda (tipico di molti che si atteggiano a maestri) il criterio di giustizia di Dio: il peccato procura una pena da scontare!

      È ancora un modo retributivo di intendere il rapporto con Dio, sconta le tue pene e poi potrai gioire... Paragona la fiducia in Dio al filo di una ragnatela (8, 14), un rapporto in cui si può vivere ma bisogna rispettarne la fragilità, il muoversi con cautela.
      È la fede ridotta ad ideologia, in cui credere significa fare delle cose, osservare dei precetti, seguire delle forme ben precise, è il formalismo dei farisei che non si prendono cura del cuore dell’uomo: l’unico luogo da cui può scaturire l’amore!
      Anche a questo consiglio Giobbe reagisce, non accetta di potere imputare Dio in base alle sue responsabilità. Quella con Dio non è e non può essere una relazione concordata attraverso regole da rispettare, non  è una questione di ragioni, Dio è ben più grande delle nostre contrattazioni di diritti. Eppure Giobbe si ribella, il suo carico di dolore è straziante, provoca Dio dicendo che è il suo “avversario”, in realtà in modo paradossale sta dicendo che Dio non è tutto ciò che si potrebbe pensare a partire da etichette, piuttosto è l’unico che può ascoltare il suo grido.
      Al cap 11 l’ultimo amico, Zofar, interviene per dire anche lui la sua, riprendere la condotta di Giobbe. Zofar mostra l’onnipotenza di Dio, il suo essere altissimo ed imperscrutabile, fa cioè del mistero una questione di distanza e della relazione con Dio un rapporto di sudditanza.
Giobbe nuovamente reagisce, rivendica la sua distanza da tali definizioni, proprie di chi “vuol ridurre Dio in suo potere” (12, 6).
     E ancora un quarto personaggio, Eliu, insinua una ulteriore soluzione al problema del male: non è affare di Dio, il male dell’uomo è totale responsabilità dell’uomo.
     Una risposta apparentemente vera ma che si traduce in una grande menzogna: Dio è su un altro piano, la storia dell’uomo scorre senza che Lui si faccia presente!
     Giobbe è sfinito ma non accoglie le diverse interpretazioni umane, sa che Dio ha a che fare con la sua storia anche se non ne comprende appieno il senso. È in uno straordinario dialogo a tu per tu con Lui che interroga Giobbe, lo porta ad entrare dentro di sé per trovare risposta. Dio gli chiede: Dove eri tu? Sai tu?...
     Giobbe comprende che è creatura e proprio per questo in rapporto con il Creatore, un rapporto che non viene meno, il desiderio di Dio è il bene dell’uomo. Giobbe non sta trovando soluzione ai suoi mali sta piuttosto conoscendo il cuore di Dio, il suo disegno d’amore per lui e per tutto il creato. È per questo che a conclusione può dire: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (42, 5).
     Ritorna la considerazione che Giobbe faceva al cap 28. Lui si sorprende nel costatare l’ingegnosità dell’uomo che scava miniere in posti impervi e riesce ad usare la tecnologia per separare i metalli e ricavarne oggetti preziosi, eppure questa non è la conoscenza, è solo strumento per vivere. A principio sta l’esperienza che ciascuno è chiamato a fare: l’esperienza di Dio.
      Continua nella propria vita…

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