Viviamo giorni senza tempo, stagioni senza nome, come a dire che camminiamo stando in area di sosta. È l'esperienza che abbiamo nell'era della postmodernità quando il possesso dei beni di consumo è assunto a meta della propria vita. L'avere non è più strumentale a raggiungere una meta, anzi, la materia da possedere diventa sempre più il fine da perseguire.
Il web ha aperto una finestra sul mondo e da allora non siamo più gli stessi. Resi capaci di affacciarci in ogni luogo ed in ogni tempo abbiamo iniziato ad esplorare vorticosamente i luoghi, l'umanità e la sua storia avendo la parvenza di conoscere. Ma quando tutto è diventato a portata di click, di fatto, abbiamo perso lo stupore, la capacità di lasciarsi affascinare dalle cose, abbiamo perso il senso del tempo che ci prepara all'incontro e, dunque, alla conoscenza relazionale.
Quando parliamo di rigenerazione urbana partecipando al processo di crescita del nostro rione Danisinni, ed è quel che viene promosso allo Zen con il laboratorio Zen insieme o a Napoli nella comunità di don Antonio Loffredo nel quartiere Sanità, intendiamo esprimere la cura non solo dell'ambiente ma anche del tempo, del ritmo di vita di chi vi abita, in modo da restituire dignitàal tessuto umano.
Abbiamo bisogno di ritrovare ritmi di vita capaci di sosta e contemplazione ed è solo attraverso questi che potremo salvaguardare lo spazio che abitiamo senza consumarlo come se non ci fosse domani!
La politica dell'usa e getta o dello sfruttamento intensivo delle grandi filiere di produzione hanno alla base la stessa logica che viene a ferire l'ambiente e l'umano che lo abita: “tanto non importa di quel che sarà domani”. È il fare miope di chi produce senza tenere conto delle ripercussoni che la sua azione economica avrà in termini di inquinamento ambientale oltre che di sfruttamento umano. Il primato dato all'economia e al potere ad essa correlato non tiene conto del domani, china l'individuo su un eterno presente da appagare. Conseguenza pricipale sarà un territorio e quindi un pianeta contaminati e persone sofferenti, ammalate fisicamente e psicologicamente, ma di questi costi i “grandi” del nostro tempo non tengono conto.
Ci troviamo a vivere “l'allucinazione della normalità”, direbbe l'architetto Rem Koolhaas. Di fronte a questa alterazione del reale abbiamo bisogno di recuperare il senso delle cose, il tratto naturale dei nostri giorni, il ritmo umano che ci permette di rimanere nella storia della vicenda personale.
È quel che viene approfondito dalla pagina del Vangelo (Mc 13, 24) di questa domenica che fa da risonanza alle domande e alle inquietudini dell'umanità di tutti i tempi. Si parla di una grande tribolazione accostabile, per senso, al travaglio che speriementa una donna afflitta dalle doglie del parto. Ci raccontano le mamme che quel dolore ha un frutto straordinario, indicibile per la bellezza che porta, e pertanto è presto dimenticato. C'è un travaglio che, se attraversato, rimanda ad una vita nuova e cambia per sempre la condizione di prima arricchendola.
Certo nel tempo dei parti cesarei programmati con anestesia generale o dei tanti espedienti per anestetizzare la vita ed imparare a “non sentire”, questa immagine pare quasi incomprensibile. Eppure evitare il travaglio significa rinunciare alla meta fino a schiacciarsi in un eterno presente.
Il tempo dell'attesa è prezioso, ci rimanda alla meta ed è essa a dare senso alle cose che viviamo. Il travaglio in sé non avrebbe senso altrimenti, è necessario rivolgersi a dove si sta andando e a cosa ci rivelerà il domani.
Ciò non significa che il futuro è da controllare, altrimenti non ci sarebbe attesa ma calcolo programmato. Il domani è da attendere e ciò costruisce desiderio, innamoramento, speranza.
La speranza cristiana apre alla fiducia e questo permette di coltivare la relazione con Dio. La relazione abbisogna di questo spazio di mancanza per essere autentica, il cristianesimo prende il largo da una tomba vuota, è quello il segno che viene dato ai discepoli.
L'immagine apocalittica del Vangelo vede crollare gli astri quel che sembrava orientare l'orizzonte ed il cammino dell'uomo, ora il cristiano è chiamato a vivere una dimensione interiore per trovare la luce, quella che non viene meno. È quel che accade nella storia personale quando fallimenti o accadimenti dolorosi vengono a fare cadere le certezze di prima. Proprio in quel momento l'individuo può aprirsi alla fede in Dio, quando non ha più appoggi per ancorarsi a qualcosa che, di fatto, lo manteneva in una posizione di nascondimento pur di non scomodarsi troppo.
La scena analoga è quella descritta nei Vangeli al momento della crocifissione di Gesù. È il momento del fallimento totale, il Maestro viene meno e con Lui l'illusione di riscatto e liberazione, attorno si fa buio, eppure il discepolo è chiamato ad aprirsi pienamente alla relazione con il Padre. La fede cristiana si fonda su una promessa, è da lì che inizia la storia della Chiesa.
In fondo ogni piccolo d'uomo comincia a camminare quando un genitore gli promette che lo afferrerà se rischia di cadere.