Le parole della psicoterapia e la Parola dell’accompagnamento spirituale /2

by Mauro 21. maggio 2014 12:00

       Sia la psicoterapia che l’accompagnamento spirituale non mirano a riempire di “sapere” mediante le parole, la persona che chiede aiuto. Nel percorso terapeutico la pretesa di conoscere e avere spiegazione su tutto ed in tempi rapidi, verrebbe letta come tendenza al controllo e, pertanto, riconducibile a difese eccessivamente rigide nell’affrontare l’imprevedibilità del quotidiano.
        Nel percorso spirituale l’obiettivo, piuttosto che quello di dare spiegazioni, è di fare gustare la relazione con Dio che rimane per tutti una scoperta del tutto inedita e mai preconfezionata. In questo senso l’accompagnamento spirituale è volto ad introdurre la persona nella contemplazione del Mistero e questa esperienza appartiene all’intimità del rapporto personale con Dio. 
       L’individuo chiuso in una ricerca eccessivamente autoreferenziale, bramoso di spiegarsi la sua ed altrui vita attraverso le parole, rischia di chiudersi in un mondo parallelo costruito su illusioni ed idealizzazioni. In tal caso il confronto con la realtà potrebbe provocare una crisi depressiva a motivo del senso di inadeguatezza nel sostenere il confronto con la realtà circostante.
      In ambedue i percorsi la persona è chiamata a decentrarsi per riscoprirsi in un contesto ben più ampio. La  totale focalizzazione sul problema, al contrario, comporta il rischio di chiudersi nel segmento di vita/aspetto che si sta attraversando misconoscendo l’integrità del progetto di vita che porta una verità ben più ampia. Ordinariamente l’accompagnatore spirituale non permette alla persona di stare troppo a raccontare il suo male, peccato, fragilità. Ciò significherebbe perdere di vista il riferimento con la Parola. È essa ad illuminare la vita personale, il peccato piuttosto carica di menzogna la visione su se stessi. E il rimestare parole per presentarlo potrebbe essere un rinforzo ad assumere posizioni vittimistiche o, comunque, passive nei confronti del problema.
     Pur essendo complementari, i due tipi di intervento, l’accompagnamento spirituale trova ragion d’essere nella Parola rivelata che viene a restituire dignità e verità all’identità perduta.
Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo non si tiene conto della storia personale che abbisogna di guarigione, in realtà il primato alla Parola permette di ritornare alla propria storia con gli strumenti necessari alla guarigione: ritornare a se stessi con lo sguardo ed i sentimenti di Dio, ovvero attraverso la sua misericordia.
Interessante, a proposito, l’indicazione che dà il prologo giovanneo (Gv 1) ove viene stabilita una gerarchia nel cammino spirituale. Dapprima la Parola, poi la Vita ed infine la Luce.
La capacità di vedere e di stare nella comprensione delle cose è il frutto di un ascolto della Parola e di una Vita che nasce da questa relazione. Infatti l’ascolto della Parola presuppone un aprirsi alla relazione, ciò che si ascolta è il contenuto della vita divina e la storia che Dio ha realizzato con il suo popolo. Questa è linfa vitale da cui ogni essere umano trova vita e, pertanto, gusto nell’attraversare la sua vicenda storica.
Ora per Luce è da intendersi ciò che dà significato e comprensione piena delle cose, ma questa potrebbe non esservi nell’immediato,“non l’hanno accolta” ripete il prologo giovanneo, ma già la Parola e la Vita permettono di camminare nel quotidiano. Avere la pienezza della “luce” in termini spirituali non è la garanzia del cammino, altrimenti sarebbe sconfessata l’esperienza di deserto (tempo di aridità spirituale, ove sembra essere nel buio) in cui la persona è sorretta esclusivamente dalla Parola.
La tentazione si insinua quando viene proposta la luce nell’immediato (sovente l’uomo è attratto da essa) ritenendo che sia il nutrimento della propria esistenza. Molte luci non danno luogo alla Luce quale presenza di Dio e pienezza di vita, così come molte mezze verità non costituiscono la Verità ma la menzogna.
La ricerca della felicità è fame esistenziale di ogni individuo e di essa si occupa sia la psicologia che la religione. Entrambe arrivano alla conclusione che l’essere umano non è appagato dalla luce del momento riassumibile nell’etica del piacere, ciò che piace nell’immediato non è garanzia di felicità. Anzi l’esperienza mostra che le ferite esistenziali scaturiscono proprio da idealizzazioni che successivamente hanno mostrato tutta la loro vacuità. 
 Questo è ciò che procura la ferita spirituale, perdita della relazione con Dio e, di conseguenza, malessere esistenziale. All’essere umano alle volte piacerebbe mutare la luce in vita, cioè crearsi delle garanzie a propria misura, basate su quello che apparentemente potrebbe appagare. Questo significherebbe ridurre l’uomo, che in verità è molto di più. (continua)

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