La bellezza di educare

by Mauro 31. March 2014 18:40

       È questo il titolo dell’incontro che ho condiviso ieri pomeriggio con un gruppo di famiglie a Valderice. La bellezza di educare è una frase accattivante, mi chiedo quale sia la differenza con l'Educare alla bellezza.
       Il focus si sposta dalla bellezza quale meta, alla bellezza quale stato necessario per l’agire educativo.

          Inizio dal fare memoria, ho bisogno di recuperare esperienze che hanno nutrito il mio essere educatore, e che sostengono il mio agire, oggi, nel nostro contesto socio-culturale; e mi chiedo: sono ancora capace di stupore?
         Il termine “bellezza” mi rimanda a parole speciali come colore, incanto, splendore, gioia, fascino, grazia. L’espressione “la bellezza di educare” lascia intendere un gusto nell’agire educativo, un coinvolgimento che è proprio di chi vive l’esperienza educativa. Educare etimologicamente significa “fuori educere” cioè portare, condurre fuori e, pertanto, favorire l’espressione della persona che sta di fronte. L’educare scaturisce dall’incontro, e questo non è mai risolto nella conoscenza piena, l’altro ci sfugge nella sua interezza, rimane mistero e proprio per questo conoscibile, nel senso che orienta il mio desiderio e la mia ricerca.
       Padre Vincenzo Spata, per me maestro di vita, mi ha insegnato a pensare l’atto di educare quale agire comunitario e mai solitario. Da sempre ripete ai suoi ragazzi di Bisacquino, oggi operatori sociali esperti nella relazione di cura rivolta ad anziani e diversamente abili, che noi siamo “comunità educante”.
Mi tornano in mente le parole di Danilo Dolci che tanto si è speso per la nostra terra siciliana, il quale affermava che «L’impegno educativo non si risolve mai al livello individuale e privato. Esso chiama sempre in causa l’interesse e il destino di tutta una comunità. La realizzazione del progetto educativo è perseguibile solo in un contesto comunitario»  (Dolci 1996, 158).
        Un’azione comunitaria, quella dell’educare, che non può esprimersi in un mero intervento su persone trattate come destinatari dell’agire educativo. Loro, piuttosto, sono soggetti e l’arte di educare scorre su una piattaforma intersoggettiva: la relazione educativa.
     L’altro è “risorsa”, ancora mi ha insegnato padre Spata, persona da scoprire e pertanto da far esprimere. Se io scopro traggo fuori ma, prima, è necessaria la fiducia propria di chi è disposto a svelarsi all’altro, a mostrarsi per quello che si è. Ciascuno si mostra se guardato con rispetto, se trova nell’altro interesse, apertura e, al contempo, rispetto del limite. L’osservare non è un etichettare e neanche un descrivere inteso come “comprensione” dell’altro.
       Un limite del nostro tempo, intuisco, è quello dell’avere perso il gusto della bellezza e questo perché non si lascia spazio all’imprevedibile, a ciò che può stupire. Abbiamo ridotto il vivere e l’atto educativo a mera programmazione ma, sappiamo bene, che la vita calcolata perde la sua capacità di risveglio, diventa routine che inibisce la capacità creativa dell’individuo.
      Come educare senza sorriso? Come senza silenzio? Come senza chinarsi sull’altro? Come senza lasciarsi attraversare? Scorrono improvvisamente le suggestive immagini del Circo della farfalla, scene che narrano la storia di un’umanità che ha riscoperto il gusto, il sapore della vita buona, la danza della relazione.
        Tornano le parole di una festa di nozze, quella di Cana ove un Uomo e una Donna si sono donati alla gente del luogo, persone che sembravano sciupare la propria esistenza in una festa che non aveva sapore, il Vino nuovo è donato all’umanità che si lascia stupire.

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