La bellezza che salva il mondo è l'amore che condivide il dolore

by Mauro 23. January 2014 18:15

      Quale bellezza salverà il mondo? è il titolo della lettera datata 1999, che l’allora Cardinale Martini scrisse per la sua Chiesa, quella di Milano. La risposta che il Pastore diede fu chiara e decisa: la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore.
      Un paio di giorni fa partecipando al funerale di una donna “sazia di giorni”, così come ha esplicitato il Pastore valdese nel ricordare i germi di bene che la vita di donna Pina ci ha lasciato, ho avuto modo di meditare come l’amore che condivide il dolore porti frutti di vita nuova.
     La testimonianza che ci è stata consegnata infatti mostra come il combattimento della vita nonostante tutto, anzi, attraverso tutte per prove è difficoltà, non è lasciato al caso, al fortuito destino che decide per noi.
       La vita resta per tutti occasione, ed è così che di fronte alle esperienze quotidiane ciascuno è chiamato a decidere e scegliere, accettare la fatica dei giorni oppure alienarsi, continuare a cercare pur nel pianto, piuttosto che ripiegarsi nella propria mestizia.
       Per lei la vita è rimasta Mistero inaccessibile eppure vi ha trovato il sorriso. Segnata da diverse perdite di persone care fin da bambina, ha maturato l’arte del cammino. Quella che non fa desistere ma, certo non senza fatica, trovare vie nuove reinventandosi ed esprimendo il desiderio di vita attraverso la custodia di sé e degli altri.
      Sì, come se le ferite esistenziali potessero aprire delle feritoie capaci di un bene ulteriore: nella difficoltà possiamo scoprire che ogni momento è importante e questo non solo per se stessi ma anche per gli altri che mi stanno accanto.
     È l’atteggiamento di prossimità cioè di accoglienza dell’altro senza per questo confondersi ma evidenziando la ricchezza di ciascuno. Un avvicinarsi caratterizzato dal sorriso e dal rispetto.
         Pareva che la cura della pace nelle relazioni avesse la priorità su tutto. Un fare caratterizzato, non ho dubbi, dalla capacità di perdono. Quella del perdono è un’esperienza di cui buona parte dell’umanità oggi si priva, troppo impegnati, come siamo, a serbare rancore o accanirci contro noi stessi o gli altri.
       In verità l’altro non può essere scudo alla propria vita, quello sarebbe un modo per manipolare e strumentalizzare le vite che ci stanno attorno o dipendere senza più trovare se stessi. A ciascuno, invece, è dato di custodire ed essere custodito da chi gli è vicino, e questo lo si impara strada facendo.
        Mi rendo conto  che questa prospettiva viene frequentemente inficiata da un frainteso che accomuna molta della nostra gente e che è riassumibile nell’spressione dialettale purtu a cruci di Cristu (porto la Croce di Cristo). Come a dire che nella difficoltà ciascuno porta la Croce di Cristo e, di conseguenza, Lui consegnerebbe la sua Croce in base ai meriti di ciascuno!
         In realtà l’esperienza di fede cristiana afferma precisamente il contrario: è Cristo ad avere preso su di sé la Croce dovuta al male che sta nel mondo. Cioè attraverso l’incarnazione Lui si fa prossimo accogliendo il carico esistenziale di ogni uomo, sarebbe più corretta, pertanto, l'espressione purtu a cruci con Cristu. L’Evento della Crocifissione ha una definitiva conseguenza: non potrà più esserci un carico o male, che potrà schiacciare l’uomo se questi si lascia sostenere da Cristo. Là dove cerchiamo di portare tutto da soli ecco che restiamo schiacciati.
        La forza, allora, è propria di chi sta in cammino e consegna, di chi fa della propria fragilità l’occasione per consegnare a Dio e non restare solo. Il pianto secondo questa prospettiva trova una ragione nuova, le lacrime d’amore diventano sorgente di vita nuova, l’amore che condivide il dolore riapre al dono della vita.
         La morte resta Mistero ma già, a chi crede, è dato di sorridere alla vita.

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