In questo tempo di sosta e di ritiro, avverto la responsabilità che ciascuno porta nei confronti del prossimo, di quello più vicino ed anche di quello più distante, almeno geograficamente. La mia risonanza di questo momento va al popolo siriano.
Fino a qualche anno fa la Siria poteva mostrare come la convivenza tra gruppi sociali profondamente differenti era non solo possibile ma anche apportatrice di ricchezza. La multiculturalità è ricchezza se si persegue un dialogo in cui ciascuno riconosce l’importanza dell’altro. È così che sunniti, drusi, curdi, cristiani e alauiti potevano ritrovarsi in un’unica comunità nazionale.
Nello specifico, in Siria, si sta attraversando una guerra civile che dal 15 marzo dello scorso anno vede scontrare le forze militari con quelle di opposizione al governo rappresentate dalla Coalizione nazionale siriana. In realtà all’inizio si trattava solo di manifestazioni pubbliche volte alla rivendicazione dei diritti della popolazione, alla costituzione di un governo democratico. Il presidente Bashar al Assad si è opposto con le sue truppe motivando che il movimento di protesta in realtà, a suo dire, era capeggiato dal fronte integralista musulmano. La repressione ha comportato l’uccisione di circa quarantamila persone,
Soltanto nel campo di Za’atri in Giordania sono stati accolti ben ventimila profughi siriani. Quello che oggi accade in Siria, ed è solo uno dei luoghi in cui si vive il dramma della guerra, ha dell’inaudito. Più di un milione di sfollati, trecentocinquanta profughi fuggiti dalla persecuzione. Un esodo di uomini, donne e bambini che hanno abbandonato tutto, case, lavoro, occupazioni ordinarie, per salvare la propria vita. Molte sono vittime di tortura, altri sono stati usati come scudi umani, in moti hanno assistito ad esecuzioni dimostrative da parte dei soldati.
Ora la drammatica situazione di un popolo che quotidianamente soffre e vede distruggere la bellezza che lo caratterizzava (la guerra in primo luogo offende la bellezza che l’uomo porta dentro di sé e che, di conseguenza, crea nei contesti che abita), rischia di diventare pretesto per rivendicare diritti o sollevare nuove questioni di ordine internazionale: il leader di al al Qaida al-Zawahiri accusa la Comunità internazionale di stare dalla parte del presidente a scapito della inerme popolazione; Russia e Cina dichiarano di essere contrari ad interventi esterni; i Paesi ed i movimenti della “mezzaluna sciita” vogliono intervenire; il presidente egiziano chiede la mediazione, oltre che dell’Egitto, della Turchia, dell’Iran e dell’Arabia Saudita; l’Occidente capeggiato dagli Stati Uniti insieme all’ “Asse sunnita” si schiera a favore del popolo.
La questione araba è alquanto complessa e, il mondo occidentale, con le sue categorie fa fatica a leggere i fenomeni di una cultura ove religiosità e vita politica sono profondamente intrecciati. Certo non è questione da risolvere in poche battute, eppure molto eloquenti sono le immagini della repressione che hanno attraversato il web e che hanno mostrato l’efferato eccidio dei manifestanti sotto il fuoco dei militari.
Complessa perché i gruppi che si scontrano hanno una matrice religiosa oltre che culturale. Ad esempio gli alauiti sono considerati eretici dalle comunità islamiche. Con l’indipendenza siriana ottenuta nel 1946, il padre dell’attuale presidente, l’alauita Hafez al-Assad, divenuto presidente, creò una rete di pacifica convivenza tra le varie etnie e riuscì ad accomunare tutti in un unico senso di appartenenza nazionale. L’identità siriana ebbe a cementare le relazioni tra la popolazione locale. Diversamente l'attuale presidente Assad ha fondato il suo potere cercando il favore delle varie etnie (considerate minoranze) di fronte ai sunniti che, a quel punto, venivano ad essere visti come i “nemici” da cui difendersi. Al di là delle reali motivazioni di fatto la politica del terrore, ha riportato profonde lacerazioni nel tessuto sociale siriano fino a far perdere ogni tipo di equilibrio politico.
Quando è la paura a spingere le strategie politiche, mi rendo conto, il discernimento volto al Bene comune viene irrimediabilmente perduto e l’essere umano passa ad agiti di estrema distruttività.
Ci risiamo, da qualche giorno ad un paio di mesi dalle elezioni generali in Israele, anche Netanyahu è entrato in guerra contro Hamas. Il contenzioso, sempre aperto, per la striscia di Gaza diventa il pretesto, antico e nuovo, per una nuova guerra.
Anche questo è un contesto in cui il presidente israeliano deve tenere conto degli equilibri internazionali ed in special modo: l’America, la Turchia, il mondo arabo. Quale il prezzo della Pace?