Il dono della Speranza

by Mauro 19. luglio 2015 14:04

    Tanti modi per commemorare la testimonianza di uomini che hanno difeso la causa della giustizia e del Bene comune, a fronte di una politica che chiacchera lanciando parole vuote, la vita di chi versa il proprio sangue per l’altro è una Parola eloquente e feconda. Vogliamo, allora, fermarci in questa domenica a meditare la Parola da cui trae origine e senso la forza del cristiano. Paolo Borsellino ci ha mostrato in modo significativo come lasciare risuonare quella Parola fino a trasformare la propria vita.

         Torniamo insieme alla pagina del Vangelo (Mc 6, 30-34) di questa domenica.

        I discepoli tornano dalla missione, la Parola che hanno donato è diventata opera di guarigione e di liberazione. L’uomo che ha accolto il loro Annuncio è tornato a vivere (questo, però, non significa che la persona rimasta inferma per qualche malattia non ha accolto la Parola, piuttosto il disegno di Salvezza operato dalla Parola passerà per quella condizione di sofferenza, cioè per la sua storia unica e personale, che sarà molto feconda), è il terreno fertile a portare frutto e il primo segno di questa novità è la comunione con il Signore.

         Il consegnare tutto al Signore equivale all’apertura propria del terreno che si fa docile all’aratura e all’essere nutrito dal contadino. L’uomo che si racconta si rende capace di accogliere Dio ed il suo insegnamento, è in questo modo che la vita torna ad essere feconda.

         A tal proposito abbiamo bisogno di discernimento, di confrontarci con la Comunità e con una guida spirituale per comprendere il senso della nostra vita e ilcome la Parola sta portando frutto. È comprensibile che alcuni cadono nella disperazione di fronte alle prove e ai tradimenti sperimentati, la vita non è scevra da ferite che a volte potrebbero intossicare l’animo fino a renderlo impermeabile, indisponibile all’accoglienza del nuovo. È necessario, per far fronte a ciò, aprirsi al confronto con la Parola mediata da un’altra persona perché altrimenti mali guaribili potrebbero compromettere l’andamento dell’intera esistenza.

         È così che nel Vangelo di oggi troviamo i discepoli, al ritorno della Missione, raccontare a Gesù quanto è loro accaduto. L’uomo è guarito quando si presenta al Signore (torna l’immagine dei lebbrosi che non tornarono a rendere grazie a Gesù dopo avere sperimentato la guarigione fisica e che, pertanto, non accolsero quella spirituale, ben più importante!), l’uomo rimane nella Luce quando continua a raccontarsi facendo della sua esperienza il luogo della condivisione per comprendere e per rendere grazie a Dio. Questo atteggiamento, oltre che illuminante, custodisce dalla superbia del cuore propria di chi si sente artefice del Bene che Dio gli permette di compiere.

           Troppo spesso assistiamo ad un cristianesimo “fai da te”, in cui ciascuno vorrebbe farsi maestro di se stesso e degli altri. Espressioni del tipo“faccio questo ogni giorno ed è più importante di mille preghiere”, sono utili a gratificare l’Ego e ad allontanarsi da Dio; o assiomi come  “l’unica cosa è pregare, Dio cambierà il mondo” o “il mondo è già stato salvato cosa posso aggiungere io?”, che rasentano il fatalismo magico proprio dell’uomo che si deresponsabilizza. Questo cristianesimo “su misura” tradisce la profondità della vocazione cristiana in cui ciascuno è chiamato ad una relazione unica con Dio e con il prossimo.

             I discepoli condividono e ascoltano, consegnano ed accolgono il Dono del Maestro. Ed è così che Gesù può proporre loro di andare in disparte da soli per riposare un po’.  Dio conosce la profondità dell’animo umano sa che abbiamo bisogno di riposo.

          Di fronte all’umanità che sembra perdersi nella frenesia dei suoi giorni il Signore sembra ricordare quello di cui abbiamo davvero necessità. No, il cristianesimo non è una pratica yoga per ricercare, in questa terra, la quiete del cuore e, così, trovare un equilibrio psico-fisico utile all’armonia con il mondo. Ricordo come uno dei più grandi maestri spirituali del secolo scorso, Vladimir Soloviev  , è morto di sfinimento fisico per le lunghe ore trascorse nella preghiera e nell’accompagnamento spirituale: lui aveva la pace di Cristo ma ciò non era esente dalla fatica quotidiana!

             Oggi commemoriamo l’eccidio di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Forse Borsellino non sapeva di rischiare la vita? Certo la paura avrà attraversato i suoi giorni ma questa non gli ha tolto la pace, quella di chi nutre la comunione con il Signore, che per lui era diventata forza per andare fino in fondo, la giustizia è responsabilità comune. Il sicario di don Pino Puglisi ha colto nel suo volto, prima di sparare, il sorriso dell’uomo di Dio che pur andando incontro alla morte sapeva che nulla avrebbe potuto strappargli l’amicizia con il Signore.

               Certo l’armonia con il mondo il cristiano la trova, ma vivendo la relazione profonda con il Creatore così come ci ricorda l’ultima Lettera Enciclica di papa Francesco “Laudato Sì”, si tratta di un rapporto in cui ciascuno mantiene la sua individualità senza disperdersi in una sorta di dissoluzione nel cosmo. Il cristiano mantiene un rapporto personale con Dio e questo lo investe di responsabilità rispetto alla sua missione: ciascuno ha una missione personale da non vivere “a titolo personale”.

                Gesù chiama in disparte i suoi, hanno bisogno di riposare. Ma di quale riposo si tratta? Il sostare con il Signore è un rimanere nell’esperienza di grazia, significa tenerne il sapore, permette a quella esperienza di essere feconda in noi. Spesso capita che dopo avere vissuta una intensa esperienza spirituale anziché rimanere in raccoglimento per lasciare risuonare quanto vissuto apriamo la TV per distrarci e, apparentemente, riposare. Questa è una tipica abitudine che di fatto ci strappa il gusto della vita spirituale cioè non permette al seme della Parola o all’esperienza che scaturisce dalla Grazia, di crescere e portare frutto.

Torna in mente la parabola del Seminatore, il seme della Parola è sparso generosamente e quel che fa la differenza è il tipo di terreno che accoglie, allora si tratta di creare le condizioni favorevoli alla maturazione della Parola ricevuta. Andare in disparte con Gesù, è la condizione favorevole altrimenti rischieremmo di disperdere tutto. Un ulteriore aspetto è dato dal bisogno di nutrimento, il tralcio (siamo in un’altra parabola) ha bisogno di restare unito alla vite per non seccare e perdere la linfa vitale. Andare in disparte con il Maestro equivale a non montare in superbia e a riconoscere che senza di Lui nulla possiamo.

Gesù scende dalla barca e trova una grande folla che lo attende. Ciò di cui ha bisogno l’umanità è la Parola e l’Annuncio scaturisce da un cuore che ha fatto grande spazio ed ha accolto, lasciando risuonare e crescere, la Parola.

Gesù ha compassione trovando la fame della gente, comprende bene il Maestro che l’umanità manca del cibo essenziale, ma per accorgercene è necessaria la misericordia. A volte noi di chiesa ci siamo centrati più sul fare, magari preoccupandoci del mangiare da distribuire, dimenticando che il cristiano deve condividere ciò che davvero sfama la propria vita, coLui che è cibo per i propri giorni.

 

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