A centro della meditazione della Comunità cattolica, oggi, troviamo il Vangelo delle nozze di Cana (Gv 2, 1-11). Sembra anacronistico per il nostro tempo parlare di matrimonio, di festa o di Dio. L’uomo pare incapace di pensarsi all’interno di un rapporto stabile, di un legame che segni l’esistenza. Il vino tutt’al più è colto per l’ubriachezza che procura ma non per la comunione di vita.
Quello di Cana di Galilea è il primo dei segni compiuti da Gesù e descritti nel Vangelo di Giovanni. Una coppia che manca del vino, una festa che non ha il brindisi e, cioè, la gioia dello stare insieme.
È “il principio” dei segni, la base, perché orienta la relazione umana al Creatore e all’altro che sta di fronte. Senza questo punto di partenza non è possibile andare oltre, la vita mancherebbe di quella passione necessaria, propria del desiderio.
Anche nel racconto della creazione trovavamo una coppia ma quella ha preferito rivolgersi altrove, si è nutrita di un’illusione. L’idealizzazione porta fuori da sé, altera la realtà rivelandosi, nel tempo, vacua.
È così che quella prima coppia era finita con il perdere la verità su se stessa, impaurendosi per la profonda solitudine, propria di chi pretende fare da solo. L’epilogo era stato l’accusa reciproca e la vergogna per la propria nudità.
L’uomo che perde il rapporto con Dio, ne cerca i surrogati, sopravvaluta se stesso o la realtà che lo circonda, insegue un certo perfezionismo imbrigliando la vita in una continua ansia da prestazione e paura del proprio limite.
Gesù vorrà partire proprio da lì, una nuova coppia con cui ripristinare il rapporto perduto, una coppia attraverso la quale rivelare il proprio desiderio di comunione.
Il passo inizia con una costatazione da parte di Maria: “Non hanno più vino”. Lei, la madre di Gesù, si rende conto che quella relazione sponsale è povera, quella festa che dovrebbe essere l’espressione della nuova famiglia è spenta.
L’uomo che vive in superficie misconosce i propri veri bisogni, semmai si rende conto delle conseguenze: ansia, tristezza, solitudine, angoscia esistenziale. Maria previene, si rende conto di quel che manca e va alla fonte, si rivolge a Gesù.
Tra loro cogliamo un dialogo che a primo acchito potrebbe sembrare sconnesso, alla domanda della madre Gesù risponde con un’espressione ebraica riassumibile con queste parole: “Che c’è tra me e te donna? È forse giunta la mia ora?”.
È un chiedere conferma rispetto a quello che Lui può fare, Gesù chiede a Maria se è disposta a partecipare a quel gesto di donazione così totale. Tra loro c’è un rapporto filiale, l’intimità che intercorre tra una mamma ed il figlio, una storia comune di ascolto del Padre e di fiducia in Lui. La complicità di una madre che serba nel cuore quel che non comprende ma che sa essere parte del progetto di Dio.
L’ “ora” a cui fa riferimento l’evangelista è quella del dono totale: l’ora della Croce. Momento in cui Gesù consegnerà Maria, chiamata nuovamente “donna”, all’apostolo, e lui alla madre. È l’ora in cui nasce la Chiesa, dal sangue versato dal costato di Cristo.
In quel consegnarsi di Gesù c’è il perdono di un Dio che vuole a tutti i costi dare vita nuova all’umanità, aprirsi ad una comunione piena, senza riserve, per restituire gioia ed ebrezza vera alla vita della creatura. Il principio dei segni rivela, pertanto, il desiderio di Dio, disposto a tutto pur di riaprire la strada per la gioia piena.
Troviamo Maria rispondere a quelle domande “Fate quello che vi dirà”. È l’indicazione preziosa che regge la vita di una persona, essere ascolto e non risposta a se stessa. Abbiamo bisogno di percepirci come discepoli e non come maestri, è vana la pretesa di essere gli unici garanti di se stessi o degli altri.
Gesù indicherà di riempire d’acqua le giare di pietra, quella che stanno all’ingresso della casa e che sono funzionali alle abluzioni prima dei pasti. Ecco l’indizio prezioso di cui Gesù si è accorto: quelle giare sono vuote. Ciò significa che quella famiglia non sta coltivando il rapporto con Dio, non c’è gratitudine e relazione con Lui, la festa non è più un rendimento di grazie (manca della preghiera che ordinariamente la precede). Sembrerebbe il frutto del loro calcolo, dello sforzo organizzativo, ma non c’è traccia di Dio.
Loro riempiono e poi versano a tavola quel che poi attingono dalle giare. Loro sanno che è acqua eppure si fidano, eseguono precisamente l’indicazione di Gesù, non fanno altro.
A volte ci si pensa troppo poveri per potere rispondere alla chiamata di Dio, eppure ogni vita è vocazione e, di conseguenza, non può esservi vita senza possibilità per Dio.
Loro si fidano e compiono quello che è in loro potere, non altro. Il rapporto di fede non è uno sforzo sovrumano, come se Dio chiedesse quello che non si ha o non si è capaci di compiere. Lui conosce la creatura più di quando ciascuno conosce se stesso.
Penso ai tanti che sperimentano il limite della propria relazione coniugale, a quanti dicono di non reggere la crisi. Eppure proprio la crisi è il momento di una nuova nudità e il litigio è occasione per la riscoperta, in quanto fa venire meno i formalismi e le reciproche idealizzazioni. È a quel punto che si scopre la povertà personale, il limite proprio e dell’altro, e ciascuno sperimenta di non essere il “tutto” della relazione.
Diventa possibile, in quel momento, ripartire e trovare un nuovo “principio” in cui Dio può tornare a parlare, dire la sua, rivelare che è Lui la fonte da cui attingere per scoprirsi sempre custodi del “vino nuovo”.