Il Volto per comunicare

by Mauro 23. April 2013 00:40

       Sentendo parlare di comunicazione siamo immediatamente rimandati al linguaggio verbale che ne è lo strumento principale, ma in realtà questo non può essere mai scisso da quello non verbale in quanto è tutto il “volto” della persona a divenire luogo di comunicazione e non solo la sua parola.
           Entrambe le forme di linguaggio rappresentano il luogo privilegiato di questa apertura e compartecipazione all’altro della propria esperienza personale. Inoltre le due modalità si influenzano a vicenda e a loro volta sono determinate dall’ambiente in cui avviene lo scambio.
           L’interazione tra colui che vede e colui che è guardato, il gioco di specchi che si crea nel rapporto empatico, permette un canale di svelamento dei reciproci volti che si incontrano. In questo reciproco scambio si crea una comunicazione: comunica soltanto chi riceve e partecipa donando a sua volta il suo “volto” all’altro.  
          Secondo Vygotsky nell’interazione con il mondo circostante la persona sviluppa il linguaggio, inizialmente considerato come una funzione interpsichica bisognosa del sostegno esterno, che successivamente assume una funzione intrapsichica capace di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento. Ciò significa che il linguaggio svilupperebbe inizialmente una  funzione comunicativa e successivamente una regolativa che sarebbe gradualmente interiorizzata.
            Stern dice che la comparsa del linguaggio nel secondo anno di vita viene a determinare un nuovo modo di partecipare all’altro le proprie esperienze personali e di creare significati condivisi. Ciò può comportare risvolti diversi, perché se da un lato il linguaggio favorisce nel bambino e poi nell’adulto la creazione di significati condivisi, dall’altro, se l’interazione non godesse di una base qualitativamente buona (mancato riconoscimento o riconoscimento condizionato), potrebbe favorire il mascheramento e la formazione di un falso sé.
             Già il neonato si esprime attraverso una forma protolinguistica che gradualmente assumerà una particolare forma linguistica. Ciò che porta il bambino alla prima parola sensata è il dargli un significato; questo consisterebbe in una generalizzazione o in un concetto, e non in una associazione con la parola a cui il significato rimanda. Quindi il significato delle parole nell’infanzia avrebbe un suo sviluppo e in particolare ci sarebbe un “salto dialettico” nel passaggio dalla sensazione al pensiero. Esso risponde a delle leggi più ampie rispetto alla sensazione per cui la coscienza verrebbe a rispecchiare la realtà in vari modi, per generalizzazioni.
             L’attribuzione di significato non riguarda esclusivamente la parola ma tutto il corpo, la comunicazione risulterebbe compromessa qualora verbale e non verbale non fossero coerenti. Infatti è la corporeità a mediare l’incontro con l’altro proprio perché nella relazione il primo impatto è dato dall’espressione corporea, così come per il neonato l’esperienza tattile, visiva o olfattiva ha più incidenza rispetto alla parola. Le posture e i gesti del corpo riescono a rispecchiare atteggiamenti esistenziali della persona ancor più che le parole.
              Comprendiamo dunque che se tutto il comportamento della persona può essere inteso come comunicazione, il contenuto, all’interno di essa, viene determinato dalla relazione. Ciò significa che oltre all’informazione viene trasmesso un comportamento, una relazione tra i comunicanti.
              Le implicanze di questa prospettiva sono ampie, in particolare pensiamo alla dimensione emozionale della comunicazione, al bisogno che la persona ha di sperimentare contatti affettivi positivi, e a come l’espressione emozionale sia volta a confermare o modificare la relazione fra il soggetto e l’ambiente. Il comportamento di attaccamento del bambino è diretto anche ad una relazione emotiva ed entrambi i partner si influenzano a vicenda nell’alternanza di risposte. L’attaccamento viene mediato dal toccare e dal vedere oltre che dall’udire, il contatto trasmette quel senso di calore e di rilassamento di cui il bambino abbisogna. Berne afferma che questo comportamento responsivo è funzionale al bisogno di stimoli e, ancor più, al bisogno di riconoscimento e cioè al desiderio di sensazioni che possono essere trasmesse solo da un altro essere umano.
             L’esperienza responsiva andrà ad influenzare l’immagine di sé e da essa dipenderà la successiva percezione dell’altro; con ciò non vogliamo stabilire se il primato nel determinare l’immagine di sé spetti al “tu” o all’ “io”, la nostra attenzione è piuttosto rivolta al processo interattivo e alla comunicazione durante il suo corso.
             Il “linguaggio corporeo” è da intendere come l’espressione di un vissuto e quindi la corporeità non è riducibile a semplice descrizione del funzionamento dell’organismo, ma è rivelatrice di un’esistenza che ha una sua particolare storia ed esperienza.
              La prospettiva fenomenologica ha messo in discussione l’attenzione che la psicologia ha dato al “fatto puro” senza interrogare i “fenomeni” e cioè il significato particolare, l’evento psichico, che sarà specifico per ogni persona. I fatti in sé non sono capaci di esprimere i significati evocati nella persona che li sperimenta, la persona va ben oltre ed è per questo che appare quanto mai riduttivo ogni tentativo di classificare la persona entro categorie ben circoscritte.
               Il “volto” che entra il gioco nell’incontro rivela qualcosa di unico dell’essere umano così come la maschera teatrale che fa risuonare la voce del personaggio rappresentato. Questo ci fa capire come l’incontro con l’altro ci mostri un punto di vista particolare, qualcosa dell’altro che mai del tutto lo com-prende e che rimanda ad altri sguardi, ad altri punti di vista, ad altri incontri e condivisioni.

 

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