I guaritori feriti e la poesia della vita

by Mauro 4. giugno 2013 22:15

       L’immagine del “guaritore ferito” esprime bene la vita del terapeuta. Lui è un essere umano così come il paziente che ogni settimana una o più volte valica la soglia del suo studio, un luogo in cui il malessere e la sofferenza viene elaborata prima di tornare a sprigionare la vita. Parliamo di processi e non di attimi, gli insight sono frutto di un lungo percorso ove sovente si ha la sensazione di girare a vuoto, di non andare oltre. Un percorso la cui efficacia è data in parte, 50%, dallo strumento umano: il corpo vissuto!
        In terapia è quanto mai importante la risonanza emotiva del terapeuta, il corpo del terapeuta è cassa di risonanza del vissuto del paziente. Non c’è conoscenza terapeutica, inizio di una relazione terapeutica se il terapeuta non entra in empatia con la persona che ha innanzi.
        Questa prospettiva si scontra con il paradigma teorico che regge la mens filosofica propria dell’uomo moderno. Il nostro è il tempo del calcolo, tutto viene quantificato proprio perché il criterio è l’utilità. Se posso misurare una cosa posso verificarne la convenienza, e in questo la corporeità, intesa come vissuto soggettivo, costituisce un ostacolo.

        Il sapere, secondo questa prospettiva, non dovrebbe fare riferimento alla propria corporeità in quanto considerata impedimento all’esame neutrale proprio della scienza. Nella misura in cui non tengo conto del corpo, proprio perché i sensi possono inficiare la mia comprensione delle cose, opero secondo rigore scientifico.
       È lo scontro tra il sistema nomotetico che vorrebbe dare leggi universali, ed il sistema idiografico che mantiene l’attenzione sul particolare e l’unicità. L’etichetta diagnostica  ha questa pre-comprensione di fondo, la conoscenza è possibile se posso quantificarla, avere degli indici discriminanti, dei comportamenti misurabili per frequenza!
       Mi accade sempre più spesso di trovarmi innanzi persone che chiedono etichette diagnostiche entro cui fare rientrare la loro vita, il modo di pensarsi. A volte alcuni arrivano già con un’etichetta appresa tramite ricerche sul web e chiedono conferma della loro diagnosi.

        Resto esterrefatto a guardarle,  mi rendo conto di come cerchino di rinunciare alla propria soggettività e questo, in verità, mi pare il male peggiore, ancora più grave rispetto ai sintomi che portano.
        Pensare l’umano in questi termini a mio avviso è mortificante, significa squalificarne la dignità, la complessità e la ricchezza propria della sua unicità. Il nostro tempo mi pare rivolto proprio in questa direzione, la qualità della realtà che ci circonda è posta in secondo piano. Ciò che interessa è l’ “universale” così come intende la filosofia, ciò che posso oggettivare ed uniformare ritenendolo comune : non “il singolo uomo” con un nome specifico, ma “l’uomo” nella sua comunanza di genere.
         Questo atteggiamento ha conseguenze su tutti i fronti del vivere umano. Si pensi al cibo, ai menù standardizzati e ai cibi precotti che tolgono ogni possibilità di originalità, di “gusto” proprio, sacrificato a favore della funzionalità/efficienza. Un cibo per essere “buono” deve essere fast food, un cibo “veloce”: è la quantità di tempo impiegato per la preparazione e non la qualità del cibo ad essere criterio di riferimento.

         Si pensi, ancora, all’arte: sembra non esserci spazio per la poesia nell’uomo moderno. La poesia così come ogni forma d’arte coglie ed esprime le qualità dell’umano e della realtà circostante. Pensare in termini quantitativi equivale a pensare in “bianco e nero”, le tonalità dei colori non sono ammesse perché non categorizzabili tante sono le sfumature a cui possono dare vita.
         Tornando alla psicoterapia, la considero un’arte. Il setting terapeutico è come uno spazio sacro in cui il vissuto umano viene consegnato per essere riconosciuto e tornare a trovare vita, creatività. La Gestalt vede la patologia come interruzione del movimento interno, ossia come interruzione del processo naturale di crescita.

         Qualità di vita significa tornare a dare espressione e nutrimento alla quotidianità, prendersene cura. È anche per questo che lo psicoterapeuta non può entrare nella considerazione quantitativa del tipo paziente/guadagno. Ciò lo porterebbe ad ammalarsi per le troppe ore trascorse in studio e, anche in questo caso, la ferita non sarebbe il vero problema quanto, piuttosto, il misconoscere il proprio vissuto non prendendosene cura: il colore della propria vita.

Comments (2) -

Laura
Laura Italy
05/06/2013 09:11:39 #

Questo post mi ricorda il film "A dangerous method" di Croneberg che tratta della relazione tra Freud e Jung e della successiva rottura tra i due. Mi hanno colpito le parole che Jung, in una scena di commovente bellezza e profondità di contenuti, rivolge alla fine del film alla sua paziente/amante Sabina Spielrein quando le dice "solo il medico ferito può guarire". Ognuno di noi ha le sue debolezze. Un terapeuta sceglie di conoscerle, affrontarle e utilizzarle come strumenti di cura.

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Mauro B
Mauro B Italy
07/06/2013 00:24:46 #

Concordo con quanto scrivi Laura, mi sembra necessario che riconoscersi sia il primo passo per potere riconoscere l’altro. Questo percorso a mio avviso passa per l’allentamento delle difese, di quelle resistenze che impediscono l’ascolto e lo stare con il proprio vissuto.
La persona fragile piuttosto è quella che non resiste ma accoglie il contatto con la propria vita, emozioni, pensieri, e proprio nella fragilità sta la possibilità di cambiamento, ciò che è fragile può rompersi così come ogni cambiamento abbisogna del perdere l’equilibrio precedente.
“Solo il medico ferito può guarire”, riconoscere la propria ferita e pertanto comprendersi nella propria fragilità permette al terapeuta di riconoscere il paziente secondo una visione integrata della sua personalità e della sua salute, non focalizzandosi pertanto sul sintomo ma prendendo in considerazione tutta la persona nella sua complessità.
Mi torna in mente un assioma di Gleick il quale afferma che dove inizia il caos termina la scienza classica. Significa che per guardare l’umano non bisogna pensare in termini di linearità ma di complessità, come sottolineavo nel post l’umano non è “calcolabile” e la fragilità  è componente di tale qualità di vita, la passione, il sentimento così come il sogno, in fondo sono aspetti di questa complessità che è proprio il genere umano.

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