L’immagine del “guaritore ferito” esprime bene la vita del terapeuta. Lui è un essere umano così come il paziente che ogni settimana una o più volte valica la soglia del suo studio, un luogo in cui il malessere e la sofferenza viene elaborata prima di tornare a sprigionare la vita. Parliamo di processi e non di attimi, gli insight sono frutto di un lungo percorso ove sovente si ha la sensazione di girare a vuoto, di non andare oltre. Un percorso la cui efficacia è data in parte, 50%, dallo strumento umano: il corpo vissuto!
In terapia è quanto mai importante la risonanza emotiva del terapeuta, il corpo del terapeuta è cassa di risonanza del vissuto del paziente. Non c’è conoscenza terapeutica, inizio di una relazione terapeutica se il terapeuta non entra in empatia con la persona che ha innanzi.
Questa prospettiva si scontra con il paradigma teorico che regge la mens filosofica propria dell’uomo moderno. Il nostro è il tempo del calcolo, tutto viene quantificato proprio perché il criterio è l’utilità. Se posso misurare una cosa posso verificarne la convenienza, e in questo la corporeità, intesa come vissuto soggettivo, costituisce un ostacolo.
Il sapere, secondo questa prospettiva, non dovrebbe fare riferimento alla propria corporeità in quanto considerata impedimento all’esame neutrale proprio della scienza. Nella misura in cui non tengo conto del corpo, proprio perché i sensi possono inficiare la mia comprensione delle cose, opero secondo rigore scientifico.
È lo scontro tra il sistema nomotetico che vorrebbe dare leggi universali, ed il sistema idiografico che mantiene l’attenzione sul particolare e l’unicità. L’etichetta diagnostica ha questa pre-comprensione di fondo, la conoscenza è possibile se posso quantificarla, avere degli indici discriminanti, dei comportamenti misurabili per frequenza!
Mi accade sempre più spesso di trovarmi innanzi persone che chiedono etichette diagnostiche entro cui fare rientrare la loro vita, il modo di pensarsi. A volte alcuni arrivano già con un’etichetta appresa tramite ricerche sul web e chiedono conferma della loro diagnosi.
Resto esterrefatto a guardarle, mi rendo conto di come cerchino di rinunciare alla propria soggettività e questo, in verità, mi pare il male peggiore, ancora più grave rispetto ai sintomi che portano.
Pensare l’umano in questi termini a mio avviso è mortificante, significa squalificarne la dignità, la complessità e la ricchezza propria della sua unicità. Il nostro tempo mi pare rivolto proprio in questa direzione, la qualità della realtà che ci circonda è posta in secondo piano. Ciò che interessa è l’ “universale” così come intende la filosofia, ciò che posso oggettivare ed uniformare ritenendolo comune : non “il singolo uomo” con un nome specifico, ma “l’uomo” nella sua comunanza di genere.
Questo atteggiamento ha conseguenze su tutti i fronti del vivere umano. Si pensi al cibo, ai menù standardizzati e ai cibi precotti che tolgono ogni possibilità di originalità, di “gusto” proprio, sacrificato a favore della funzionalità/efficienza. Un cibo per essere “buono” deve essere fast food, un cibo “veloce”: è la quantità di tempo impiegato per la preparazione e non la qualità del cibo ad essere criterio di riferimento.
Si pensi, ancora, all’arte: sembra non esserci spazio per la poesia nell’uomo moderno. La poesia così come ogni forma d’arte coglie ed esprime le qualità dell’umano e della realtà circostante. Pensare in termini quantitativi equivale a pensare in “bianco e nero”, le tonalità dei colori non sono ammesse perché non categorizzabili tante sono le sfumature a cui possono dare vita.
Tornando alla psicoterapia, la considero un’arte. Il setting terapeutico è come uno spazio sacro in cui il vissuto umano viene consegnato per essere riconosciuto e tornare a trovare vita, creatività. La Gestalt vede la patologia come interruzione del movimento interno, ossia come interruzione del processo naturale di crescita.
Qualità di vita significa tornare a dare espressione e nutrimento alla quotidianità, prendersene cura. È anche per questo che lo psicoterapeuta non può entrare nella considerazione quantitativa del tipo paziente/guadagno. Ciò lo porterebbe ad ammalarsi per le troppe ore trascorse in studio e, anche in questo caso, la ferita non sarebbe il vero problema quanto, piuttosto, il misconoscere il proprio vissuto non prendendosene cura: il colore della propria vita.