È una gioia potermi soffermare mensilmente per condividere l'Eucarestia con la Comunità di Sant'Egidio che a Palermo la domenica è solita radunarsi al Capo nella chiesa di Santa Maruzza, detta “dei canceddi”. Un angolo singolare, al termine del noto mercato, da cui la Comunità trova linfa vitale nutrendosi della Parola e dell'Eucarestia per avviarsi ai numerosi servizi che condivide con tanti fratelli e amici della nostra Palermo. Dai clochard ai bambini, dagli anziani agli immigrati, Sant'Egidio entra in relazione accogliendo e costruendo relazioni amicali.
È così che nel lontano '68 un gruppo di studenti del liceo Virgilio di Roma, quando ancora i licei romani parlavano di solidarietà e giustizia sociale, iniziarono l'esperienza della scuola popolare e, man mano, della visita ai disabili, gli anziani, i detenuti, fino ad arrivare ai negoziati di pace in Mozambico e in altre nazioni del martoriato Continente nero e, nei nostri giorni, ai corridoi umanitari che hanno visto arrivare anche a Palermo diverse famiglie siriane lo scorso anno.
Una Comunità che ha prontamente risposto all'appello per la pace lanciato nel 1986 ad Assisi da Giovanni Paolo II, che aveva chiesto un impegno concreto per la pace nel mondo. Non si tratta di pace in termini formali, ma quella frutto di relazioni e rapporti di prossimità tra popoli e, ancor prima, tra vicini dello stesso Rione.
È così che anche a Palermo la Comunità ha celebrato il cinquantesimo anniversario dalla sua nascita, una storia in cui in tanti, come dice Andrea Riccardi, hanno donato “il proprio tempo per rammendare il tessuto del mondo, delle nostre città sfilacciate”.
Non si tratta di una pezza nuova in un vestito vecchio. È, piuttosto, l'azione in cui l'accoglienza ha il primato e la relazione verticale permette al dono, di diventare vivificante.
Papa Francesco parla di tre P che declinano il carisma di Sant'Egidio: la Preghiera, i Poveri, la Pace. La scoperta di essere figli del Padre apre ai fratelli più poveri e al riconosciemento della loro paritaria dignità; la difesa della giustizia sociale e per prima la pace, esprime la responsabilità che ciascuno sente per la vita altrui.
Proprio in questa domenica il Vangelo (Mc 1, 40-45) ci racconta la storia di un uomo, un escluso che vive nella profonda solitudine perchè lebbroso. Il fatto di essere gravemente malato, oltre alla sofferena fisica ed al timore di perdere la vita, era gravato dal rifiuto altrui e dal vivere fuori dell'accampamento.
Non sappiamo se, in quel caso, è più dolorosa la malattia o l'emarginazione assoluta ma, di certo, in questo modo veniva votato alla morte nella solitudine. La lebbra, oltretutto, veniva percepita come una punizione divina per il peccato commesso per cui si trattava di una esclusione religiosa oltre che sociale e, a motivo della condizione di impurità, l'accostarsi al lebbroso equivaleva a doversi allontanare dal tempio e dagli atti di culto.
In questa dinamica di avvicinamento e allontanamento assistiamo ad un colpo di scena: il lebbroso si avvicina a Gesù per un atto di culto. Anziché dichiararsi “impuro”, così come prescriveva la Legge, lui dichiara la sua fede entrando in relazione con Gesù e riconoscendogli la capacità di purificarlo.
Il Maestro nell'incontrarlo si accende di compassione, gli tende la mano, lo tocca e gli parla. La Parola di Gesù è frutto di un movimento che la precede: dapprima fa spazio dentro di sé perchè lascia risuonare il grido della sua sofferenza, poi si apre a lui fino a toccarlo e, di conseguenza, accettandone il contagio. La Parola che Lui pronuncia è frutto di questo essersi compromesso, ed è allora che lo consegna al Padre: “io lo voglio, sii purificato”.
Chi entra in relazione con Gesù viene consegnato al Padre perchè entra in questa esperienza di comunione profonda tra il Padre e il Figlio, è l'esperienza dell'Amore. C'è un moto interiore a cui Gesù non resiste e che lo fa avanzare decisamente verso l'interlocutore per accoglierlo e, inevitabilmente, renderlo “puro”. Gesù lo vede già così, chi ama vede oltre le ferite, riconosce il volto dell'altro anche se questi è sfigurato e se ne fa carico perchè coglie il suo bisogno.
Non si tratta di una questione estetica o formale, Gesù facendo questo accettava di potere essere trattato come lebbroso impuro e, pertanto, costretto a rimanere fuori delle città.
Subito dopo mette a tacere l'uomo guarito e gli dice di andare per rendere testimonianza dinanzi ai sacerdoti. È duplice l'intento che scorgiamo con questa richiesta: Lui non vuole alcuna risonanza formale o idolatrica, questa genererebbe euforia ed allontanerebbe dalla relazione col Padre; inoltre tacere è indispensabile per rimanere in ascolto, o è Dio a parlare o è l'io individuale che utilizza l'agire di Dio per farsi pubblicità. Oggi più che mai vediamo le celebrità attestare la loro conversione al Signore con tale ostentazione da fare dubitare rispetto al nuovo orizzonte di senso trovato.
Gesù fugge da tale riconoscimento, sa che continuerebbe a falsare la vera immagine di Dio: amore gratuito che desidera il Bene della sua creatura.
Gesù chiede una testimonanza differente, frutto dell'incontro avuto e della gioiosa guarigione che ne scaturisce. È il fascino di questa testimonianza che può procurare il desiderio di conoscere Dio e di lasciarsi incontrare da Lui.
Quale motivo, altrimenti, per costruire la pace e dimenticare l'inimicizia. Come uscire dalle logiche di potere se non intuendo che l'amore aumenta attraverso il dono, e che ciascuno è prezioso per l'altro.
Il travaglio di questo mondo è grande, il patire dei nostri Rioni a volte è disarmante, pensiamo al Capo, a Ballarò, a Danisinni, al Borgo, eppure c'è una luce che abbisogna di venire fuori, di trovare voce, di mostrare un volto nuovo, di trovare espressione nella storia che oggi viviamo.