Entrare in scena per rimodulare il copione di vita

by Mauro 11. gennaio 2012 15:18

  La vita procura un’esperienza che ci fa assumere dei copioni, modalità per affrontare le situazioni facendo economia di risorse ma che, se eccessivamente cristallizzati, possono finire con l’ingabbiare la persona in una sorta di cliché automatico e fonte di malessere. Lo stesso vale per i ruoli sociali, modi di vedere e di mostrarsi, che potrebbero impedire di vedere la realtà nella sua interezza e di inibire la propria espressione di vita.
         Jacob Levi Moreno introduce il concetto di ruolo intendendolo con un’accezione del tutto originale, per lui il ruolo precede il Sé ed è dato dall’unità culturale della persona. Ne consegue che il Sé è frutto dell’interazione sociale e si sviluppa nel tempo. Ancora parla di ruoli psicosomatici propri del bambino nella interazione con la madre, di ruoli psicodrammatici propri della fantasia e del rapporto con personaggi ideali, di ruoli sociali frutto delle interazioni con il mondo circostante. Proprio il ruolo costituisce per Moreno la chiave d’ingresso per entrare a contatto con il sé e dal sé partire per modificare l’assunzione di ruoli sociali. Infatti il processo di cambiamento attivato dallo psicodramma è dato dalla elaborazione della azione scenica che esprime la rappresentazione mentale; nel corso dell’azione il protagonista viene ad avere degli insight che producono nuove integrazioni e la scoperta di ruoli più funzionali alla propria vita.
         Nel costruire l’azione scenica il ruolo permette di dare forma, di uscire dall’astrattezza per concretizzare la scena. Giovanni Boria in Psicoterapia Psicodrammatica (2005, 47) la definisce come una Gestalt ma di tipo diacronico e non sincronico. Per cui si dispiega nell’intera azione scenica e non in un singolo frammento di essa. Si assiste ad un processo di mentalizzazione in cui il ruolo viene unificato durante tutta l’azione scenica. Allora se l’accezione di ruolo è da intendersi nel continuum di un’azione è possibile associare il concetto moreniano di ruolo con quello berniano di copione. Seppur non perfettamente identici entrambi sono rintracciabili nella modalità di mettere in scena un modo di interagire con l’altro, con il mondo e con se stessi.
         Possiamo intendere il copione come un ruolo cristallizzato, un modo consolidato di ripetere modalità di interazione. Il giocare un ruolo può favorire la fuoriuscita dal copione imparando un ruolo più funzionale al proprio benessere.
         Oggi la teoria del copione si è notevolmente evoluta rispetto alla prima metà del secolo scorso quando Eric Berne, in  Analisi Transazionale e Psicoterapia, (1961, 101) lo definiva quale derivato del transfert cioè come “un adattamento di reazioni ed esperienze infantili”. Precisava inoltre che il copione è un tentativo di ripetere in forma derivata un intero dramma transferenziale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copioni teatrali, che sono dei prodotti artistici intuitivi dei drammi primitivi dell'infanzia. La scuola romana di Analisi Transazionale fondata da Pio Scilligo ha superato quella iniziale definizione facendo riferimento, come scrive Maria Luisa De Luca in Psicoterapia e ricerca (2009, 123), a “una rete di significati, valori, norme d’azione con valenza affettiva, emergente creativamente dall’esperienza nell’orizzonte di una tendenza fondamentale della persona che si proietta verso il futuro nel contesto della sua dotazione genetica e nel contesto presente e passato del suo mondo fisico, interpersonale, sociale e culturale”.

         Il lavoro psicoterapico è volto a favorire questo processo di espressione consapevole e nutriente della propria esistenza. L’individuo cioè viene a rielaborare in modo unico ed originale gli stimoli ricevuti dall’ambiente esterno orientando, e non subendo, il proprio progetto di vita. Mi torna in mente per analogia il dramma di pirandelliana memoria, inerente a quei personaggi in cerca di autore, personaggi che riconoscono di essere stati creati vivi e che vogliono esprimere autenticamente se stessi.
   

         Post scriptum: Pirandello alla prima del 1921, rappresentata nel Teatro Valle di Roma, a conclusione dello spettacolo Sei personaggi in cerca d’autore ebbe ad udire l’urlo degli spettatori disgustati che inveivano proferendo  “Manicomio, manicomio”. In fondo anche lui con quella scena aveva fatto uscire il Teatro dal copione conosciuto, ne aveva perfino cambiato la struttura osando un nuovo modo di vedere ed abitare le cose della vita.


 

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