“Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore”, parole controcorrente quelle del Siracide (3, 20) che aprono la liturgia di questa domenica.
È vero si potrebbe sostenere il contrario anche partendo da un semplice dato fenomenologico: la continua rincorsa sociale di grandezza e apparenze. Basta scorrere le foto dei profili facebook per rendersene conto.
In realtà molta grandezza esibita denuncia una estrema fragilità e malinconia di vita, frutto del bisogno di essere riconosciuti da qualcuno per sentirsi vivi e utili a qualcosa.
L’essere umano è relazionale e ognuno ha bisogno dello sguardo altrui per ritrovarsi, è diverso però il modo per raggiungere tale scopo.
Da un lato c’è chi cerca nutrimento attraverso il possesso, il potere o l’apparenza, e dall’altro c’è chi lo ricerca per mezzo del donare, del servire e del nascondimento. Posizioni diametralmente opposte che procurano conseguenze ben diverse nella propria ed altrui vita.
Il Vangelo rincara la dose, Gesù osservando come alcuni sceglievano i primi posti a tavola mettendo da parte altri afferma: “Chiunque si innalza sarà umiliato e chi si umilia sarà innalzato” (Lc 14, 11).
Il banchetto a cui si allude è metafora della vita, il cuore della gente pare manifestarsi proprio nel modo di stare a mensa. Nel nostro rione ai Danisinni girando a piedi nel mentre che qualcuno cucina o sta mangiando, è spontaneo l’invito a condividere qualcosa. È ben diverso dal protocollo di certuni banchetti ove l’ingresso è precluso già in base all’abito che si porta.
Ricordo che in alcuni villaggi dell’Albania all’estrema povertà, nel dopo regime di Enver Hoxha, faceva seguito la straordinaria accoglienza per l’ospite che veniva a visitare casa e al quale si riservava la stanza migliore, spesso l’unica arredata, i dolci e il buon raki conservato per quell’occasione.
Ci sono persone che vengono da più parti corteggiate per il loro potere del momento, la bellezza ed il prestigio che hanno o per l’utile che da loro si può ricavare. Sono relazioni in cui si nutre la vanagloria e cioè l’apparenza, rapporti a termine perché quando passa la scena del momento, improvvisamente, vengono meno! Rapporti votati alla triste solitudine, alla rabbia per non essere più al centro di tutto e di tutti.
Allora Gesù dà un’indicazione assai preziosa: “Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti!”.
È il modo in cui Dio viene nel mondo facendo spazio alla creatura. Ricordiamo come Lui nel banchetto più eloquente della storia dell’umanità ebbe a cingersi i fianchi per servire e lavare i piedi ai suoi discepoli.
Scegliere l’ultimo posto equivale a dare importanza all’altro desiderando il meglio per lui. Non si tratta di un processo di autosvalutazione ma di amore. Certo è difficile riflettere su questa postura oggi in cui l’amore viene banalizzato e spesso risolto nella categoria della convenienza. L’attuale proposta di vita è utilitaristica, i rapporti sponsali spesso sono regolati dai beni e dai diritti sulle spese da affrontare e, a volte, i conti separati dettano inaspettate logiche di potere all’interno della coppia.
Parlare di ricchezza in termini di rinuncia è davvero faticoso per l’uomo contemporaneo il quale crede che la felicità stia nell’accaparramento di quanto più possibile. Difficile comprendere la scelta di Francesco d’Assisi il quale un giorno rinunciò all’ideale cavalleresco e alla ricchezza del padre per incominciare a servire i lebbrosi.
Francesco, era il 1205, scoprì nella vicinanza col lebbroso una gioia indicibile, una dolcezza di vita che niente gli aveva mai procurato prima.
Riconosciamo che per gustare la vita bisogna perdere qualcosa, è cioè necessario entrare in una scelta abbandonando altro, rinunciando ad un appagamento omnicomprensivo. Ci sono tanti sognatori che rimangono tali per tutta la vita, parlano dei cambiamenti prospettati ma, di fatto, non si muovono tanto sono persi nella loro avara idealizzazione.
Bisogna avere l’umiltà di una strada, quella in cui ciascuno sperimenta la fatica quotidiana, la propria ed altrui fragilità, ed è da lì che è possibile lavorare per un processo di cambiamento sociale, così come mandare avanti una famiglia malgrado le tante difficoltà, o nutrire una speranza che rimane capace di guardare oltre l’evidenzia di questo mondo.
Ancora oggi c’è una fetta di umanità che sceglie il dono di sé ed il servizio quale posto per stare nelle cose della vita. Un’umanità che non cerca il plauso ma il Bene, quello vero, da condividere con l’altro.
È la scena di solidarietà che sta muovendo molti, in queste ore, a scavare con le proprie mani tra le macerie di Amatrice nella speranza di salvare una vita umana. È, ancora, l’insieme di buone pratiche a cui assisto ogni giorno, nella nostra Palermo, a servizio degli ultimi, di quelli che sono rimasti esclusi dai banchetti altisonanti della nostra Città ma che sono cari agli amici di Dio.