Il Natale a Danisinni è esperienza di aggregazione sociale ma che di riflessione sui valori ed i modelli che regolano l’umana convivenza. Del resto il senso del Natale e della festività di quest’oggi, intitolata alla Famiglia di Nazaret, è dato proprio dal ritornare a considerare le radici della Comunità umana.
Nel nostro tempo assistiamo ad una crisi del quadro antropologico, messo in discussione per favorire il mercato dei consumi. Se l’essere umano “dimentica” la sua identità, allora andrà alla ricerca di un appoggio o un “nuovo acquisto” per riconoscersi, almeno per qualche giorno!
È così che il desiderare il nuovo, dimenticando ciò che siamo e ciò che già abbiamo, diventa fonte di continua angoscia perché la mancanza non è mai appagata. Alla base il nuovo modello vorrebbe l’uomo autodeterminarsi per essere risposta a se stesso, eppure l’individuo si sperimenta come dato, dono che si può solo accogliere e mai determinare. Ciascuno cioè scopre di essere quello che è, di essere chiamato all’esistenza, e con questo dato deve fare i conti.
L’istituto familiare sembra essere minacciato nella sua identità profonda, come a dire che non è più vero che un uomo ed una donna sono chiamati a creare famiglia aprendosi alla paternità e alla maternità quale vocazione di vita. Si rifiuta il dato evidente dell’essere figli, mentre questa esperienza accomuna ogni essere umano: se la paternità e la maternità sono possibilità per ciascuno, la figliolanza è esperienza naturale.
Con il Natale i cristiani hanno celebrato la grande avventura che Dio ha iniziato con l’umanità la quale, pur sforzandosi, non poteva arrivare ad un’esperienza di vera condivisione con Dio. Ora tutto prende luce da una nuova intimità con Lui, resa possibile solo accogliendo il dono gratuito. Fino a quando l’umano non si apre alla gratuità rimane sterile, cioè incapace di generare a sua volta.
È interessante che la Comunità cristiano cattolica, quest’oggi medita una straordinaria pagina della Scrittura ove Abramo e Sara, seppur ormai sterili, tornano a dare vita. Come può il deserto vedere fiorire il suo suolo? Come può l’uomo infecondo generare vita? “Nulla è impossibile a Dio”, era stata questa la promessa fatta dall’angelo a Maria, la stessa che era stata fatta secoli prima ad Abramo al quale era stato mostrato il firmamento per indicare il numero della sua discendenza.
Non è su una promessa che si fonda il matrimonio o, comunque, ogni vincolo di amore? Promettere fa paura ai nostri giorni, il “per sempre” appare eccessivo per le misure ego-centrate dei nostri tempi. La promessa equivale ad uno sbilanciarsi per poggiare la propria esistenza fidandosi dell’altro. Ma il partner delude, non può rispondere alle aspettative idealizzate del coniuge, la fragilità propria dell’essere umano tradisce ogni possibile idealizzazione. E allora? C’è una novità introdotta dall’esperienza cristiana: è Dio a fidarsi di me e per questo posso aprirmi con fiducia all’altro. C’è una spinta originaria che viene a sostenere la vita del cristiano e lo apre verso l’altro. In questa prospettiva si inserisce il concetto di dipendenza quale espressione della vita matura in cui ciascuno percepisce di avere bisogno dell’altro. La patologia, a pensarci bene, si struttura nella pretesa di isolarsi dal contesto e nella costruzione di difese sempre più rigide.
Lasciamoci suggerire qualche risonanza che viene proprio dalla Scrittura meditata in questa giornata. Il Vangelo (Lc 2, 22-40) comincia con l’espressione: “Quando furono compiuti i giorni…”. Per Israele il tempo non si consuma bensì trova compimento, è molto interessante notare come lo scorrere dei nostri giorni non sia tanto un perdere qualcosa ma un riempirsi sempre di più. E questo dipende dal criterio che usiamo per dare senso alla nostra vita: se diciamo “è finita la mia giovinezza”, viviamo di rimpianti cercando l’elisir di lunga vita (anche per questo i prodotti di cosmetica oggi procurano un grande profitto così come gli interventi di chirurgia plastica); se invece affermiamo “sono compiuti i miei anni”, allora, ci apriamo a una prospettiva futura di pienezza e percepiamo la vita come cammino verso una meta.
Compiuti gli otto giorni danno il nome Gesù così come aveva rivelato loro l’angelo. La sacra famiglia dà il nome a Gesù, e chiamare per nome significa riconoscere l’esistenza e l’’importanza di una persona. Sono i primi a chiamarlo per nome e a riconoscere, pertanto, che “Dio salva”: questo è il significato del nome di Gesù. Può invocare “Gesù” solo chi riconosce che solo Dio salva, e pertanto chi riconosce, con Maria e Giuseppe, che solo nel Signore c’è salvezza. Chi si crede giusto non chiamerà il nome del Signore, perché penserà di non avere bisogno di salvezza.
Compiuta la purificazione Gesù sarà portato a Gerusalemme, sarà la prima volta, vi ritornerà a 12 anni quando comincerà ad insegnare innanzi a scribi e farisei. Ma questi due viaggi saranno preparazione a quello definitivo. L’ultimo viaggio verso Gerusalemme segnerà il compimento di tutta la Scrittura e della missione salvifica di Dio, si concluderà dall’alto della Croce con l’esclamazione “tutto è compiuto”.
La presentazione del primogenito al tempio equivale a riconoscere che Dio è l’autore della vita, i figli appartengono al Creatore e non ai genitori. Ciò equivale ad attestare la grande libertà degli uomini perché voluti da Dio, chiamati all’esistenza da Lui. Sono frutto del desiderio di Dio che ha, pertanto, un disegno d’amore e di profonda comunione per ciascuno. Il primogenito va riconosciuto come proprietà del Signore, lui che sarebbe il “bastone della vecchiaia” va consegnato a Dio, perché è Lui l’unico sostegno della propria esistenza.
Ora nel tempio stanno un uomo e una donna, ambedue sono in attesa. Simeone è al compimento dei suoi anni ma ancora non può andare in pace perché ha bisogno di essere consolato e cioè di vedere l’Emmanuele, il “Dio con noi”. Siamo consolati quando scopriamo che Dio accompagna la nostra vita e non siamo lasciati al caso: la nostra vita è un viaggio in compagnia di Dio e dopo averci preparati Lui ci accompagna nel suo Regno, nella piena comunione con Lui. Ed è lo Spirito Santo a muovere Simeone, questa consolazione e questo movimento verso la meta eterna è possibile solo sotto l’azione dello Spirito Santo. La consolazione viene proprio dall’avere tra le braccia Gesù. Prima lo accoglie tra le braccia e poi riconosce che tutto è compiuto, in Simeone riconosciamo il cammino verso cui tende tutta l’umanità: accogliere tra le braccia Gesù per essere, infine, da Lui accolti. Ora può andare finalmente in pace Simeone, la morte sarà colta come compimento e consegna tra le braccia di Dio.
Simeone ha atteso per tutta la sua vita la venuta del Messia. Pensate alla gioia di quest’uomo che sta vedendo il compimento dei suoi giorni, eppure subito dopo il suo esultare ecco che passa a dire come la manifestazione di Dio non ammette compromesso, la rivelazione di Dio svela ogni bruttura dovuta al peccato. C’è una necessità per accogliere il Dio che viene, buttar via il male che attanaglia la propria vita. Ciò comporta uno scontro con la logica di questo mondo e, annota il Vangelo, motivo di persecuzione e di conflitto. Ci rendiamo ben conto che spendersi per una causa ha sì un prezzo ma, in definitiva, è ciò che nutre i nostri giorni, dando loro compimento.