Custodire la direzione di vita

by Mauro 23. ottobre 2016 13:38

         C’è un combattimento che dà senso alla vita di ogni persona. Ciascuno lotta per una causa, si spende per dare motivo ed ottenere qualcosa di significativo per la propria esistenza e, ciò, a prescindere dal credo religioso. Si tratta dell’atteggiamento proprio dell’essere umano che abbisogna di un motivo per vivere e per guardare oltre.

            Quotidianamente, eppure, incontro persone che si sono passivizzate cadendo in uno stato depressivo di rinuncia e di abbandono. Alcune, mi dicono, a motivo della mancanza di sbocchi lavorativi o per i traumi subiti nella loro storia. Non è facile favorire l’uscita da quel tunnel e, riscontro in tanti, la grande illuminazione e forza che traggono dal Vangelo.

Il passo che la Comunità cattolica medita questa domenica (Lc 18, 9-14) si adatta perfettamente al contesto culturale dei nostri giorni, in cui la spinta alla soddisfazione compulsiva cercherebbe di dare direzione, suggerire necessarie “battaglie”, finendo con il gonfiare l’io dell’individuo fino a privarlo della relazione con l’altro. Una sindrome autoreferenziale pare contagiare l’uomo contemporaneo svuotandolo di orizzonti e di interesse gratuito per l’altro.

La Parabola in questione racconta di due individui, l’uno rigidamente coartato dentro i suoi schemi di vita e di religione, l’altro consapevole della sua pesantezza d’animo ma aperto alla relazione con Dio. Tra i due non c’è distinzione di fragilità, sia il fariseo che il pubblicano sono additabili come “peccatori”, nel senso che entrambi hanno sbagliato direzione di vita ma l’elaborazione dell’esperienza da loro fatta è ben differente!

Il fariseo è uomo di religione, fa tante cose giuste magari con tanti scrupoli e, per questo, si presenta a Dio pieno di sé. Non è mendicante, è sazio dei suoi giorni per cui non vive di desiderio ma di appagamenti. Cerca l’utile in ogni cosa, finendo così con il competere anche con Dio: è a Lui che presenta i suoi meriti in eccesso come a dimostrare che ha superato anche le richieste divine.

Sta facendo di più quest’uomo, ma ciò solo per autocelebrarsi e “nientificare” l’altro. Questo è il motivo per cui Gesù racconta la parabola, cioè per quanti hanno assunto una postura esistenziale volta ad annientare chi sta loro attorno ed ergervisi al di sopra.

Il pubblicano aveva affidato la sua vita ai proventi, i soldi determinavano le sue scelte ed amicizie, eppure ora si rende conto che senza Dio non ha più nulla. Tutto ha perso il sapore, il gusto, ed è perciò che innalza la sua preghiera al Signore.

“O Dio, abbi pietà di me peccatore”: questa è la sua preghiera essenziale con la quale arriva nelle profondità del suo animo e nel Cielo. Parte dal riconoscere la grandezza di Dio, tanto che non osa alzare lo sguardo, declinata dalla sua “pietà” e cioè onnipotente misericordia. 

Il suo cuore è prima di tutto gratitudine ed è da questa che scaturisce la sua ammissione di colpa. Non è quest’ultima il punto di partenza ma l’amore del Padre che fa sentire accolti e guardati e, perciò, capaci di riconoscere le proprie colpe. Il contrario equivarrebbe ad essere schiacciati per il proprio peso, così come accadeva ai farisei, ossessionati dall’enorme quantità di precetti che essi stessi si erano dati.

Dei due solo il pubblicano tornerà a casa riconciliato: è l’ingresso nella Comunità cristiana dove lo stare nella stessa “Casa” rappresenta il Battesimo, luogo di vita nuova e di rinascita da cittadini del Cielo.  

 

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