by Mauro
19. May 2014 10:00
L’uomo appare muto, senza parole significative, capaci di esprimere la sua identità. Sembrerebbe che la cultura contemporanea abbia rinunciato a dire l’uomo. E questo è accaduto quando la mens post-moderna ha rivolto la domanda di senso non più a Dio ma alla creatura.
Ci si è spostati sull’identità dell’essere umano, analizzandola attraverso le varie scienze e, sorpresa, si è scoperta un’identità sempre più debole, che ha perso la percezione della sua provenienza, delle radici appunto.
Oggi si parla di identità funamboliche, liquide, ben poco definite. Anzi, ciò che sa di definizione ha assunto una valenza direi minacciosa. Una parvenza dogmatica da stimmatizzare è stata attribuita a quel che è stabile. E anche qui mi pare che ci sia un equivoco di fondo: stabile oltre ad inamovibile indica la condizione di fortezza cioè con una sua identità. Con questa accezione è stabile chi si muove verso una direzione, chi nutre un progetto di vita, chi affronta le difficoltà non rinunciando alla sfida della esistenza, è stabile chi si rivolge ad una meta. Intendo quel movimento che è proprio dell’indole dell’essere umano, fatto di desiderio che porta ad una continua ricerca. Questo atteggiamento è ben diverso dalla frenesia del cuore e della mente che porta il contemporaneo a correre continuamente, a fuggire da se stesso rimanendo inchiodato alle esperienze di morte che porta nell’animo. È così che percepisce i fallimenti, le disillusioni, le fragilità sperimentate nella sua storia. L’esperienza del limite diventa come insostenibile, da rifuggire anche a costo di consegnare i propri giorni alla vita di superficie.
Comprendo, sono tanti gli argomenti che tiro in ballo da poter dissertare per giorni interi ma non è la disquisizione che mi interessa, soltanto introdurre la riflessione sul bisogno di profondità che tutti portiamo e che, altro frainteso, non è da tradursi con pesantezza, anzi penso proprio che profondità riconduce a leggerezza, leggerezza del vivere.
Tornando alla questione sull’identità, la prospettiva cristiana definisce l’identità a partire dalla relazione. L’uomo che ferisce la relazione con l’altro perde la capacità di riconoscimento di se stesso.
Iniziamo un percorso che ritengo assai prezioso per l’esistenza di ciascuno e di cui si dovrebbe avere una certa competenza per stare nelle cose della vita.
Il confronto con l’esperienza religiosa, l’anelito alla profondità spirituale, a mio avviso non è qualcosa di accidentale e l’uomo che la misconosce non fa altro che appoggiarsi a punti di superficie, ancorare la propria vita a certezze che di fatto nel tempo si rivelano provvisorie, utopiche o comunque non appaganti la ricerca di senso.
Prendersi sul serio, coltivando questa dimensione, è necessario per lo psicoterapeuta così come per il falegname, significa stare in questo mondo a cimentarsi con le cose della quotidianità con uno sguardo di profondità. È una provocazione che ci viene dalla vita.
Si pensi che nella esperienza cristiana la conoscenza di Dio, attraverso la sensibilità spirituale, informa tutta la persona, nella sua totalità di anima e corpo. I sensi spirituali entrano in raccordo con quelli corporei e li illuminano rispetto al gusto per il bene. La liturgia, ad esempio, è il luogo ove per eccellenza si sperimenta questa correlazione, il corporeo e lo spirituale vengono intensamente uniti.
Questa educazione sensoriale abbisogna di una purificazione certo, l’udito soffre dell’inquinamento acustico di tutti i giorni. È nel cammino spirituale che man mano l'uomo si abitua al suono della Parola ed è allora che inizia a distinguere ciò che è distonico, frutto di aggressività per tono o per contenuto.
Ai prossimi post dunque… (continua)