Sembra che i sogni, i progetti della nostra esistenza non siano un qualcosa di immediatamente afferrabile o definibile, c’è sempre uno scarto tra la prima intuizione e la concretizzazione che, oltretutto, avviene nel tempo. I bimbi spesso si trovano a vedere crollare le loro idealizzazioni iniziali, i loro “calcoli” di felicità, ed imparano a confrontarsi con il limite. La vita sovente tradisce le aspettative e, a quel punto, si ha l’opportunità di arrivare all’essenziale cioè di epurare il di più per arrivare a ciò che davvero conta.
Ciò non significa che la realtà è equiparabile ad un “accontentarsi”, piuttosto potremmo dire proprio il contrario: l’esistenza trova colore solo attraverso l’espressione nella realtà!
Così è per chi sta nelle cose della vita a prescindere dai risultati. A nostro intendere la fiducia nella vita non può essere sottoposta ad esame, quello sarebbe l’atteggiamento della persona ipercritica e controllante che, così facendo, si procurerebbe grande avvilimento fino alla patologia dell’anima.
Quando l’idealizzazione viene meno la persona si confronta con il senso profondo della vita ed è lì che ritorna la nostalgia di Dio. Molti, proprio per questo motivo, ritengono che l’esperienza di fede sia da considerarsi come una fuga mundi, una sorta di razionalizzazione per non crollare nello stato depressivo, e questa considerazione è proprio vera per coloro che partono da un preconcetto: l’esistenza dell’uomo esclude la possibilità di Dio!
Procedendo da questa premessa si ostinano su posizioni sempre più rigide facendo della propria vita un ascolto ego-centrato dove l’escludere a priori il divino porta, man mano, a non riconoscere pienamente neanche l’altro uomo. E se la questione fosse ben altra?
Per approfondire l’argomento faccio riferimento al Vangelo (Gv 1, 14-21) che la Comunità cattolica medita in questa IV domenica di Quaresima. Si tratta di uno stralcio dell’incontro che Nicodemo, un fariseo membro del Sinedrio, ha con Gesù. Arriva dal Maestro con tante domande a differenza degli altri farisei che avevano scelto la linea dura, perché inquietati dalla Parola di Gesù, avevano preferito condannare a priori piuttosto che ascoltare la sua Rivelazione, partono cioè dal preconcetto difensivo.
L’episodio ci racconta la storia del chinarsi di Dio per donare tutto all’uomo, una parabola discendente per tirare fuori, dal buio del peccato, l’umanità: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna”.
Lui va di notte, si nasconde, vive all’ombra della Legge e teme di essere visto e pertanto giudicato. Chi si pone sotto il giudizio degli uomini non è più libero di vivere, teme perfino di approfondire ciò che lo affascina nel profondo: la personale esperienza di Dio.
La Parola ha una risonanza nell’intimità di ciascuno, il rivelarsi di Dio conquista il cuore, eppure l’uomo si difende e ha paura di abbandonarsi al richiamo del divino. È per questo che, fagocitato dalle spinte laiciste, l’uomo contemporaneo vive sempre più alla periferia di se stesso perché in una vita di superficie pensa di riuscire a trovare un certo equilibrio che l’andare in profondità farebbe perdere. Ma l’uomo che galleggia spegne la sua vita, ha bisogno di sempre maggiori sedativi perché il richiamo esistenziale condurrebbe ben oltre. Nicodemo anche se sommessamente va, è ancora nella notte ma con coraggio cerca una risposta.
Gesù accetta quel confronto anche se l’interlocutore vorrebbe metterlo sotto esame per avere “certezze” piuttosto che aprirsi all’imprevedibile.
Di fatto il Signore lo destabilizzerà rivelandogli una comprensione nuova della realtà e della Scrittura. Nicodemo, così come molti pii israeliti, stava a rispettare l’osservanza rigorosa della Legge, ora Gesù gli rivela la Verità nascosta nella Scrittura e la necessità di una “nuova nascita”.
È quel che accade ogni volta che siamo chiamati a lasciare le certezze di prima per aprirci alla novità della vita: la Verità va ricercata ma non è questione di “possesso”, piuttosto trova luce nella sequela quotidiana di Cristo! Non si tratta di vivere “semplicemente” come vuole Dio ma di vivere la stessa vita di Dio, non si parla di imitazione ma di incarnazione ed è ben diverso.
È terribile quanto viene detto: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie”. Seppure il vivere nelle tenebre sia motivo di grande angustia e tristezza dell’animo, in tanti rimangono nel nascondimento perché temono quel che potrebbe accadere venendo alla luce. Quando si è in un tunnel ci si convince, con rassegnazione, che quella ormai sia la strada obbligata. Si ha vergogna di venire alla luce e ciò perché non si conosce il vero volto di Dio, fa paura la delusione di sé o l’apparire poveri e fragili dinanzi agli altri. Si crede che Dio non potrebbe sostenere questa delusione e che il perdono, piuttosto, andrebbe meritato.
È come quando una persona vive una dipendenza e a tutti i costi nega, raccontando tante bugie, che il suo pensiero sia permanentemente assorbito dal come procurarsi una dose o i soldi per andare a giocare d’azzardo, o come impossessarsi dell’oggetto o della persona su cui ha appoggiato la propria vita. Quando la realtà viene alla luce la persona crolla perché il mondo di menzogne, che fino a quel momento lo manteneva in “equilibrio”, non è più una custodia in quanto tutti sanno che la realtà è ben diversa. È quel che accade, anche, nel caso di un tradimento: l’adulterio scoperto fa crollare quel sistema di strategie messe in atto per vivere nel compromesso.
Eppure in tutti questi casi il venire alla luce è l’unica via per uscire da quella specifica schiavitù che, nel tempo, finirebbe con il distruggere la vita di quella persona.
Per accogliere la provocazione lanciata da Gesù, Nicodemo dovrà lasciare le sue garanzie farisaiche per aprirsi all’esperienza dell’Esodo, la stessa in cui il popolo era stato chiamato a riconoscere la sua povertà-peccato, la pretesa di una strada facendo a meno di Dio, finendo in un luogo abitato da serpenti velenosi. Mentre il popolo si era dovuto volgere al bastone a forma di serpente innalzato da Mosè, quale ammissione pubblica della propria colpa, ora Nicodemo e l’umanità rinata dovranno rivolgersi al Figlio dell’uomo, Gesù, innalzato sul palo della Croce.
Sostenere lo sguardo rivolto al Crocifisso significa riconoscere che Dio si è caricato del peso di ogni peccato e lo ha portato su di sé. Lui ha mostrato, in questo modo, il vero volto del Padre che non è quello del Dio punitivo ma quello del Padre che per amore dei suoi figli dona pienamente se stesso. Innalzare equivale a “dare gloria” e la gloria di Dio, cioè il suo valore, è l’Amore. Dio non può sottrarsi all’amore anche dinanzi al tradimento dei suoi figli.
Riconoscere il proprio Creatore che dona totalmente se stesso dall’alto delle Croce equivale a rinascere, è l’amore a dare una vita nuova, noi rinasciamo se ci sentiamo profondamente amati e questa fecondità è propria di Dio e della sua Chiesa.