Come mai è così scandaloso vedere delle persone amiche o parenti che in questi giorni, ritrovandosi dopo due mesi, osano avvicinarsi le une alle altre? Potrebbe essere strano il contrario e cioè rimanere indifferenti e distanti nell'incrociare una persona a cui si è così legati.
In questi mesi di restrizioni a motivo della pandemia di Covid-19 stiamo sperimentando quanto sia vitale il rimane in relazione e il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. La rete internet ci sta permettendo di non isolarci e di rimanere connessi e questo ne sta rivelando ulteriormente la valenza sociale che ha per il mondo contemporaneo, eppure ciò non è sufficiente e la solitudine continua a mietere vittime. Il bisogno di prossimità rimane basilare in quanto senza vicinanza la persona perde l'entusiamo per la vita, la motivazione e gli interessi si spengono e, man mano, finisce con il trascurarsi fino a lasciarsi andare.
Il nostro tempo ci aveva già abituati a violenti processi di esclusione quando non si era capaci di sostenere la continua competitività sia nel lavoro che nelle performance personali e i rapporti umani venivano regolati dal criterio dell' “usa e getta” in cui il valore di un individuo era legato alla sua produttività.
Anche il Servizio sanitario nazionale ha risentito di questo modello aziendale e ai primari, trattati sempre più come manager, è stato chiesto di aumentare gli introiti e di ridurre al massimo i costi. Conseguenza immediata è stata l'impossibilità di sostenere il carico di lavoro con parametri di prestazione a misura d'uomo, sia per il personale ospedaliero che per i pazienti. È così che abbiamo visto sfoltire i reparti con la mancata assunzione di nuovo personale per rimpiazzare i colleghi dopo il pensionamento. Tale strategia ha preteso di contenere e razionalizzare la spesa sanitaria.
Un effetto vortice ha investito l'intero sistema nazionale dove l'obiettivo di avere più prestazioni con meno personale e, quindi, continua reperibilità, ha portato al burnout di molti con relativo esaurimento mentale e fisico, e isolamento dal lavoro. L'eccessivo e prolungato coinvolgimento emotivo, causato pure dalla frustrazione a lavorare in simili condizioni, ha avuto delle conseguenze rilevanti nella cura e nella presa in carico dei pazienti.
È pertanto che in molti casi la presenza di parenti dediti all'assistenza dei ricoverati è stata di fondamentale importanza nel segnalare sintomi e richieste che altrimenti sarebbero state trascurate con conseguenze devastanti. Basti pensare che in Sicilia il rapporto di un infermiere ogni diciotto pazienti è la prassi come recentemente hanno denunciato il presidente dell'Ordine dei Medici e quello dell'Ordine degli Infermieri di Palermo. Tale sproporzione aumenta di gran lunga il rischio di mortalità dei pazienti ricoverati.
Questo scenario ci fa comprendere come in tempo di pandemia il ricovero in ospedale, privato del supporto di familiari o di altri assistenti a motivo delle dovute restrizioni, può rilevarsi letale per molti anche perchè il personale di reparto è ulteriormente gravato delle incombenze inerenti ai dispositivi di protezione necessari per contenere la diffusione dei contagi.
La riflessione verte, dunque, sulla solitudine che attraversa il paziente ma anche su quella che vive il personale medico e sanitario il quale ogni giorno lavora in condizioni umanamente insostenibili. Lo tsunami Covid-19 all'improvviso ha investito una struttura già precaria e ha richieso una ulteriore esposizione a ritmi e rischi esasperanti. Si pensi, ad esempio, come ancora oggi continuano a mancare in ospedale adeguati dispositivi di protezione oltre ai tamponi, e non si dimentichi che anche medici e infermieri si sono dovuti isolare dai familiari per custodirli.
Ci si sente soli quando si percepisce che le scelte strategiche, anche in tempi di emergenza, sono legate a questioni politiche come ad esempio si è rivelato l'impianto Covid in Fiera a Milano; o quando si continua ad attendere i sintomi rilevanti prima di eseguire un tampone al personale e, così facendo, dopo che il reparto risulta già tutto infettato.
L'esperienza di questi giorni deve portarci a riflettere oltre l'emergenza, a restituire dignità alla professione medica e sanitaria così come riconoscimento alla figura del caregiver familiare, comprendendo la relazione di cura quale intervento sistemico che abbisogna dell'apporto di tutti. La resilienza del paziente è frutto del supporto dato dai legami significativi e questo è un rilevante fattore protettivo per reagire alla malattia e contribuire alla terapia somministrata. E, ancora, è da pensare come la disuguaglianza sociale ingeneri esclusione e solitudine fino ad un malessere diffuso che aggrava ulteriormente il quadro clinico degli individui.
Uscire dal 2020 con un pensiero volto alla promozione umana in termini di benessere comunitario, potrà essere uno degli apporti più singnificativi maturati in questi giorni di crisi e, al contempo, di rinnovato desiderio di vita.