Emergenza sociale? Guardiamo il contesto

by Mauro 28. aprile 2012 10:21

  Oggi viviamo un tempo di emergenza sociale ove si corre il rischio di dimenticarsi dei più bisognosi, intere fasce di popolazione potrebbero, man mano, essere dimenticate dai servizi socio-sanitari. Penso ai tanti adolescenti lasciati a se stessi, agli uomini separati che rinunziano anche al proprio lavoro ed iniziano a vivere per strada, ai gruppi rom che vengono trattati con i mezzi meccanici per non essere più visibili, ad intere fasce di professionisti che per amor di profitto ricorrono costantemente a stupefacenti per mantenere il ritmo di lavoro quotidiano. O ancora l’aumento esponenziale di dipendenza da gioco, fattore che destabilizza numerosissime famiglie, ma che viene sottovalutato anche perché il mercato del gioco regge parte dell’economia statale oltreché quella illegale.
           Intendere i servizi sociali come laboratori di ricerca per riconoscere cittadinanza alle popolazioni invisibili mi sembra un obiettivo importante ed è quello che si prefigge il Laboratorio di epidemiologia di cittadinanza così come quello che si svolgerà alla Certosa del gruppo Abele a Torino dal 31 maggio al 2 giugno prossimo, officine esperenziale dal titolo "Salute e/è diritto".
            Un laboratorio, pertanto, che prende in esame i dati epidemiologici (riguardo alla popolazione) quali: bisogni primari soddisfatti e non; salute e malattia, condizioni patologiche e condizioni sociali; intendendoli come indicatori di riconoscimento del diritti soggettivi e comunitari.

             Ci sentiamo molto vicini alla mission di questo progetto che tende al riconoscimento del volto di tutte le popolazioni sociali comprese le categorie più disagiate o le minoranze etniche; concreatamente partendo dalla analisi e dal rilevamento dei dati viene promosso un cambiamento sociale volto al riconoscimento.
              In realtà nel lessico comune, così come in quello scientifico, sovente utilizziamo terminologie e prospettive che mantengono esclusione, provocano pre-giudizi, etichette che cristallizzano anziché mirare al cambiamento e alla promozione, ad esempio: sano/malato, bianco/nero, comunitario/extracomunitario, agiato/disagiato. Tale prospettiva determina interventi di “recupero” ove ci sono parametri da raggiungere stabiliti come “normali” ma di fatto si corre il rischio di non riconoscere il volto dell’altro, la sua identità ed originalità.
                Penso ai tanti adolescenti che mi dicono di come il mondo adulto non comprende i loro bisogni e la loro sensibilità, finendo con il rimarcare luoghi comuni che contribuiscono a rinforzare distanze e precomprensioni. O ancora ai writers che cercano di comunicare il loro sentire andando controcorrente per non essere inghiottiti dal fiume omologante. Risuona la frase di uno di loro che un paio d’anni fa ebbe a dirmi: “ma come può una città invisibile rendermi visibile?”
                È importante dare valenza e senso al CONTESTO, attraverso la cura del contesto è possibile riuscire a progettare in vista del cambiamento e del rinnovamento della nostra società. La politica delle emergenze è alquanto limitata ed infruttuosa, fa dei nostri interventi dei rammendi nuovi in vestiti vecchi. Quando venti anni fa abbiamo iniziato a lavorare con i giovani attraverso percorsi di accompagnamento e di cooperazione per strada ci siamo resi conto che a poco valeva quel tipo di intervento senza prendersi cura del contesto familiare ove il giovane viveva, è così che abbiamo iniziato ad interessarci delle famiglie. Ma anche le famiglie stanno in un contesto sociale e allora bisogna interessarsi dei contratti lavorativi, del rispetto dei giorni festivi, dei modelli di vita.
              Mi chiedo che senso ha rispecchiare, accompagnare e sostenere una famiglia facilitando le competenze comunicative, l’ascolto empatico, la definizione dei ruoli, quando poi la politica del lavoro impone turni durante i giorni festivi e l’impossibilità ad incontrarsi per tempi prolungati (una giornata alla settimana) proprio perché i coniugi hanno giorni liberi differenti tra loro, mentre i figli hanno vacanza da scuola la domenica. Certo non possiamo attestare che il nostro Contesto attuale promuove la cultura dell'INCONTRO. Ma quale "cultura" stiamo passivamente accettando?

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