L'esperienza del prossimo non va evaporata

by Mauro 29. ottobre 2017 15:29

   L'umanità del nostro tempo sta investendo molto nella costruzione di muri sempre più alti e più lunghi sparsi per il mondo. Nel mentre che i capitali vengono spostati da un capo all'altro del mondo per mezzo di un click veloce un istante interi flussi migratori inseguono gli spostamenti economici in cerca di sopravvivenza.

La risposta occidentale è l'elevazione di nuovi puri il cui effetto principale è la crescita della diseguaglianza e l'aumento della distanza tra i popoli. Ci rendiamo conto che in un simile scenario la ragione, priva di prospettiva globale, non riesce a dare senso all'accoglienza dello straniero. L'itinerario biblico gradualmente apre cuore e mente restituendo verità al rapporto con il prossimo, una volta illuminato dal rapporto con Dio.

La stessa Comunità cristiana, ci ricorda la Prima lettera di Pietro (1), è costituita da stranieri a motivo dell'elezione. La chiamata di Dio e cioè l'aprirsi alla relazione con Lui, rende pellegrini e non possessori di questo mondo, viandanti in cammino verso la meta del Cielo, unica residenza appropriata e frutto del dono gratuito di Dio.

La logica di gratitudine e amicizia si contrappone, entrando in questa prospettiva, a quella di rivendicazione e inimicizia, e l'altro non è più colto come oggetto di possesso ma fratello con cui condividere e compagno di cammino.

La storia biblica è segnata da due grandi esodi, quello di Abramo prima e quello guidato da Mose poi, e non è un caso che l'itineranza sia il contesto proprio in cui avviene l'annuncio di Gesù. Il discepolo è chiamato ad una condizione di precarietà in questo mondo in modo da rendere saldo il suo legame con Dio. 

La Parola che viene consegnata oggi alla Comunità, in cui il passo dell'Esodo (22, 20-26) viene approfondito dal Vangelo di Matteo (22, 34-40), dà lettura a questa dinamica relazionale.

Nel Vangelo torna la provocazione che gli avversari, cioè quanti tramano contro, lanciano a Gesù. Abbiamo già assistito a domande pretestuose volte a far cadere il Rabbì e non ad attingere alla sua Sapienza. È l'uomo saccente di tutti i tempi che usa l'interlocutore per rinforzare il proprio ego e, infatti, parte dalla pretesa di custodire ragioni e autorità sulla vita altrui.

La domanda è sul comandamento più grande di tutti, considerato che la tradizione contemplava 613 precetti, di cui 365 su quel che non era permesso e 248 su quel che era permesso.

La risposta di Gesù non è meramente sul piano della domanda, loro chiedevano una risposta circoscritta a quanto era preventivato ma Gesù risponde unendo due precetti basilari in modo del tutto inedito, cioè inserendo il rapporto con Dio e col prossimo all'interno di un unico processo relazionale.

Per primo cita lo Shema Israel, il credo d'Israele che inizia con l'ascolto per riconoscere l'unicità di Dio a cui prestare obbedienza. Questo significa che la risposta di amore obbediente è frutto dell'esperienza d'amore.

Se non si parte dal riconoscersi amati si trasforma il cristianesimo in un atto volontaristico, come se l'uomo dovesse arrivare a Dio partendo da se stesso. È da Lui che bisogna iniziare, ed è perciò che l'ascolto apre alla fede.

C'è una richiesta totalizzante in questa circolarità relazionale: “con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente”. Il cuore quale sede unificatrice della persona, in cui sentimenti e pensieri si uniscono, l'anima ossia il soffio vitale che rimanda al soffio di Dio che dona esistenza ad ogni cosa, la mente quale capacità progettuale e motivazione per spingersi oltre. La passione, il respiro di vita e ogni energia quale prospettiva futura, vengono connotate dall'amore per il Signore. In Lui ogni agire umano viene unificato ed integrato in un'unica direzione.

Il passaggio inedito al secondo comandamento, quale  homoíos cioè “somigliante” (lo stesso termine usato per il rapporto Padre e Figlio) sancisce l'intima correlazione tra Dio ed il prossimo. Anche qua, per primo è Lui a farsi prossimo, vicino a quanti erano emarginati, all'umanità che andava in cerca dello sposo.

L'indice dell'amore per Dio è il rapporto con l'altro che mi sta accanto ma anche con l'altro distante che potrei trattare con indifferenza perché non “interessa”. Questo secondo precetto smonta la logica del possesso sostituendola con quella della custodia.

O ti apri all'altro per vile possesso e cioè  per ergerti al di sopra e dimostrare potenza e valore, oppure riconoscendoti “prossimo” te ne fai custode sposandone la causa per la difesa.

Certo, ci muoviamo in un tempo in cui è stata sancita la morte di Dio e, a seguire, quella del prossimo. Apparentemente l'essere umano crede di potere fare a meno di Dio e cerca di risolvere l'inquietudine esistenziale attraverso appagamenti subitanei, privandosi così di un ascolto profondo. Se questo in parte gli riesce, molto più grave risulta l'assenza dell'altro perché nessuna macchina potrà sostituire la presenza umana.

Siamo proprio sicuri che è possibile vivere nutrendo la distanza? Suggerisco solo un'icona propria dei nostri giorni: l'imprenditore sempre più a contatto con burocrazia e calcoli finanziari, vive il rapporto con il personale della sua azienda senza scrupoli o sensi di colpa, e i contratti spesso non tengono conto del quadro umano. La distanza, cioè, anestetizza la sensibilità e rende l'individuo sempre più simile all'automa...

 

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