La temporalità: disegno o necessità?

by Mauro 29. marzo 2013 18:00

  Le celebrazioni che viviamo nei luoghi santi durante questi giorni mostrano come il luogo ed il tempo, si incontrano, trovano espressione nel “qui e ora”. La liturgia che è appunto la celebrazione dell’Ora di Dio, cioè rende presente quel che è successo una volta e per sempre, qua ha una connotazione ancora più significativa proprio perché si fa memoriale attuativo là dove i fatti sono realmente accaduti.
           La questione del tempo ritorna, già ne trattavo nei post http://www.larelazionechecura.it/post/Il-Tempo-impaziente.aspx, e http://www.larelazionechecura.it/post/La-famiglia-e-chiamata-a-so-stare-insieme.aspx
proprio perché interpella la nostra vita, direi oggi in modo del tutto speciale proprio perché i paradigmi culturali che affondano le loro radici nelle religioni monoteiste, vengono messi in crisi dai nuovi paradigmi di riferimento che della temporalità e della vita dell’uomo, fanno una questione di produttività!
            Mi chiedo se la nostra quotidianità nutra davvero un orizzonte di senso, un disegno che porti verso una direzione di vita. È una questione importante quella del vivere il tempo che ci è dato, perché la vita potrebbe altrimenti scivolare come un inesorabile fluire che ci travolge subendone la direzione. Comprendo che impariamo dalla nostra quotidianità ad essere flessibili e a trovare direzione adattandoci alla vita. Non sempre infatti ci è dato di gestire gli eventi, sovente registriamo l’accadere degli eventi che ci sorprendono destando meraviglia o turbamento.
            Noi occidentali affondiamo le nostre radici culturali nella mens giudeo-cristiana, malgrado una certa corrente laicista vorrebbe attestare il contrario. Il nostro mondo è impregnato della prospettiva finalistica del tempo propria del giudeo/cristianesimo.
            Da principio la mens greca coglieva l’individuo quale parte di un tutto, iscritto nella ciclicità naturale che trovava nel ripetersi delle stagioni il senso e la sapienza della vita. L’uomo doveva imparare dalla natura, carpirne i segreti ed adattarsi alle necessità del contingente.

             Il nascere ed il morire era inserito in questa ciclicità ove ciascuno, trascorso il proprio tempo, lasciava spazio ad un altro. Una comprensione della vita che non lasciava apertura ad una evoluzione quale speranza per un futuro inedito, liberato dalla schiavitù del contingente. La sapienza umana stava proprio nel rispetto del limite, nell’accogliere il senso di precarietà proprio dell’umana specie.
            La visione giudeo-cristiana ha introdotto un elemento finalistico nella concezione della temporalità: la vita ha un fine, non è ripetizione ma creatività che addirittura corrobora l’azione creatrice di Dio. Il Creato è fatto per l’uomo affinché possa esprimersi scoprendo la sua vocazione, la sua missione di vita a cui la natura è soggetta.
            È straordinario pensare che ciascuno è capace di una storia inedita, di un’espressione originale che può essere esclusivamente sua, condivisa si, ma mai sostituita dalla storia di un'altra persona.
            Concordo con Umberto Galimberti quando dice che  pure Freud scontrandosi con la visione deterministica propria della teoria della pulsionalità (pulsione di vita e pulsione di morte che confliggono, rischiando di lasciare l’individuo in balìa della necessità) si apre ad una prospettiva lineare (e quindi permeata del quadro culturale giudeo-cristiano) in cui il passato traumatico, passando attraverso l’analisi del presente, può aprirsi ad un futuro di guarigione.
             Lo stesso Nietzsche che parla della “morte di Dio”, attraverso il folle personaggio de La Gaia Scienza che dice di “cercare Dio”, fa esprimere il grido estremo di una società che sta misconoscendo Dio e, in questo modo, si sta privando del finalismo. In questa profonda intuizione il filosofo tedesco (morto nel 1900) è stato davvero profetico.
             In realtà pare proprio che la nostra società si sia organizzata privandosi di una prospettiva aperta al futuro. Una sorta di determinismo che vorrebbe essere l’ultima, e proprio per questo assurda, risposta ai perché dell’uomo. Il fine è dato dal denaro, dall’apparire, dal potere, dalla tecnica, in estrema sintesi dall’idolatria di sé.    
             Ritorno ad un assioma suggerito dal filosofo Galimberti durante un Convegno che si è tenuto a Siracusa nello scorso mese di giugno: Hegel affermava che l’aumento quantitativo di un fenomeno determina una variazione qualitativa della realtà.
             È una constatazione che ci permette di comprendere quel che accade. Porto un esempio giusto per semplificare: se in una piazza viene lasciato cadere un sacchetto di spazzatura, la piazza rimane tale; ma se nella stessa piazza vengono riversati camion di spazzatura allora diventa una discarica! Cioè non è più intesa come una piazza.
             Il passaggio successivo appare immediato: se il denaro è il mezzo per raggiungere uno scopo quale la soddisfazione di bisogni o il benessere, allora resta denaro; ma se il denaro diventa la conditio sine qua non assunta da tutta l’umanità per raggiungere il benessere allora man mano il denaro diventerà il fine e non più il mezzo del benessere. La risultante sarà: “Io sto bene se ho denaro!”
              E questo processo vale anche per la tecnica, per l’apparire, per il potere. Solo che l’individuo man mano finisce con lo scoprire, a prezzo di una grande tristezza e solitudine, che il mezzo non ha la capacità del fine, non ha cioè la capacità di restituire all’umano un orizzonte di senso, un progetto che è nutrimento per la vita. Piuttosto la persona viene assoggettata al mezzo e valutata in funzione di esso.
               L’uomo che si adatta a questa nuova percezione di sé, accetta di presentarsi mostrando le competenze, i titoli acquisiti, le esperienze lavorative fatte, ciò che ha prodotto, nella speranza che qualcuno prima o poi lo riconosca… Non è per questo che siam fatti!
                                                                      Colorare la propria vita è…
                  Pensare alla propria esistenza quale disegno inedito.
Tornare a se stessi con stupore piuttosto che con calcolo.
        Presentarsi per nome, ripetendo il proprio nome e non titoli.
Lasciarsi degli spazi vuoti nell’agenda, si il tempo inutile è altrettanto importante.
                          Andare per vie e quartieri nuovi e girare senza mappa, magari volgendo lo sguardo in su in modo da scorgere prospetti, le fronde degli alberi, il colore del cielo.
              Fermarsi a parlare guadando negli occhi per accogliere quanto l’interlocutore, anche d’un momento, vuole comunicarci con o senza parole…

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