Quale chiamata?

by Mauro 14. gennaio 2018 10:39

     Danisinni quale officina sociale è esperienza quotidiana ma le azioni in campo muovono da una riflessione che attinge dalla Parola attorno alla quale ogni domenica la Comunità sosta. Oggi la provocazione è sulla risposta che ciascuno sta dando alla propria esistenza e la lettura orizzontale ha come chiave ermeneutica la dimensione verticale.

    Intendere l'uomo comporta affacciarsi ad un processo e la persona non può essere intesa staticamente,  come se bastasse un'etichetta cristallizzata a definire un essere umano. Ciascuno è molto di più delle apparenze, seppure nel tempo la relazione generi conoscenza, intimità, comprensione profonda dell'altro.

La Parola che meditiamo questa domenica abbisogna di questa chiave relazionale per essere colta in profondità. È fuorviante assestarsi al rapporto Creatore – creatura, questo non dice appieno la verità dell'uomo che, in primo luogo, è chiamato all'esistenza e questa provocazione non ha mai fine. Per questo il Dio cristiano è Padre, cioè in rapporto con il Figlio e tutta l'umanità è chiamata a vivere un rapporto di figliolanza.

Samuele viene chiamato e disponendosi in ascolto troverà il senso della sua vita. C'è un profondo rischio altrimenti, ognuno potrebbe illudersi di trovare le risposte da sé o, addirittura, essere risposta per la vita altrui. In un tempo come il nostro, in cui è comune il delirio di onnipotenza questo rischio è quantomai diffuso.

Samuele, ancora, risponde definendosi “servo” così come farà poi Maria, la madre di Gesù. L'ascolto presuppone il fare spazio e il servo è colui che non è pieno di se stesso, non è autosufficiente e abbisogna di un altro per vivere. Non è tanto l'assoggettamento che si intende ma la consapevolezza di mancare del centro della propria esistenza. Gesù, oltretutto, dirà che i servi sono amici e a loro è riservata la conoscenza delle cose del Padre suo (Gv 15, 15). È un rapporto di intimità dunque, di condivisione profonda.

La seconda scena della Parola di oggi vede i discepoli di Giovanni che vengono orientati dal maestro a rivolgersi verso Gesù. La vita spirituale rende liberi e tronca ogni menzognero rapporto di competizione e rivalità. Giovanni fissa lo sguardo su Gesù, su di Lui è spostato il baricentro della sua vita, e lo indica come l'agnello che porta su di sé il peccato del mondo. L'immagine biblica è alquanto efficace, l'agnello mansueto è esemplare nel suo consegnarsi senza opporre rivendicazione. Proprio in questi giorni due caprette nate nella nostra fattoria parrocchiale rendono l'essenza di questa delicatezza e il “portare il peccato” dice la portata di questa consegna.

Il peccato aveva ferito la relazione filiale e Dio era stato relegato in un mondo altro separato dalla vita quotidiana dell'uomo o, casomai, inteso quale giudice vendicativo. Conseguenza del peccato è la perdita del volto del Padre, l'incapacità di affidarsi fiduciosi a Lui. Indicato quale “agnello” Gesù ristabilirà questa relazione ferita mostrando, dalla Croce, tutto l'amore del Padre verso ogni essere umano: seppure umiliato e crocifisso continuerà ad amare insieme a Suo Figlio! 

I discepoli di Giovanni chiedono a Gesù “Dove abiti”, ossia “dove rimani”. Gesù parlerà, ancora, del rimanere, “rimanete in me e io in voi” (Gv 15), intendendo il legame vitale come quello della vite e dei tralci, e il rimanere esprimerà la condizione per portare frutto.

I discepoli, pertanto, hanno posto un'importante domanda: è il desiderio di “rimanere” con Lui a fare comprendere la direzione della propria vita. Ognuno è chiamato a stare in cammino ma quel che fa la differenza è la domanda a cui cerchiamo di rispondere con il nostro quotidiano.

 

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