Egitto in attesa di una nuova primavera

by Mauro 2. febbraio 2013 12:00

   Quello che in questi giorni sta accadendo in Egitto è l’epilogo di un lungo processo di soprusi che ha esasperato la popolazione egiziana.

      La gente è stanca del fondamentalismo islamico che troppo spesso si traduce in atti di estrema violenza in nome di un formalismo che vorrebbe avere il primato sulla  dignità di una persona. Se un velo o un vestito più o meno lungo, così come il portare la barba o il praticare sport, può diventare il motivo per una condanna a morte allora siamo convinti, e lo sono anche i teologi islamici, che non si tratta di religiosità ma di ideologia che vorrebbe asservire la religione ai propri scopi. Rammarica che l’Islam possa lasciarsi strumentalizzare da una così fatta pretesa di potere a discapito di tanti. 
     In Egitto però sta accadendo qualcosa di nuovo, la protesta in atto sta proponendo un diverso modello spirituale e politico, un diverso modo di pensare la convivenza umana, un pensare che ciascuno debba avere il suo posto. Certo tanta strada è ancora da fare se si pensa che le donne partecipanti alle manifestazioni di questi giorni rischiano di essere violate innanzi a tutti, eppure la il movimento non si sta arrestando, anche se il prezzo è davvero alto (sessanta morti nell’ultima settimana).
      La recente corrente riformiste musulmana parla dell’equivocità creata in Egitto, ove molti che tornavano dai paesi arabi avevano importato usi esteriori di quei territori fino a farli diventare delle mode e poi delle norme obbligatorie, con pene sempre più gravi per i trasgressori. È come dire che una persona che non si è adattata ai tempi e che veste come dieci anni fa allora è da arrestare. Paradossale ma vero ed è di questa esasperazione che il popolo egiziano si sta facendo carico. Anche i cristiani d'Egitto, i copti in particolare, da anni vivono una costante persecuzione.
      La questione ancora più complessa sta nel fatto che il governo per garantirsi la stabilità e quindi il potere negli anni, si è coalizzato con il salafismo, corrente integralista, concedendo restrizioni sempre più gravi.
      Il Presidente Morsi proviene da un partito vicino ad Hamas ed inoltre l'Egittto è un paese che ha un ruolo decisivo nel difendere la causa palestinese.
      Intendiamo bene come la questione ha dei risvolti politici a livello internazionale. La segreteria americana, nella veste di Hillary Clinton, ha dichiarato di appoggiare le Istituzioni egiziane  riconoscendone, implicitamente, l’autorità diplomatica. Ecco questi sono i particolari che ci sfuggono, come al solito c’è una linea di demarcazione che non è chiaramente definibile: quanti devono essere le centinaia o migliaia di morti dovuti agli interventi repressivi dei militari per distinguere se quel governo è dittatoriale o meno? 
      Eppure proprio a Washington sotto il palazzo presidenziale milioni di egiziani espatriati negli Stati Uniti hanno manifestato contro l’ingiustizia sociale del Presidente Morsi. Ricordiamo altresì che il Premier egiziano ha sostenuto gli americani nella guerra in Iraq, ha accolto le multinazionali USA, ha consegnato alle compagnie americane buona parte dei giacimenti di gas e petrolio. O forse è questo il prezzo dell'amicizia?

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