Le parole della psicoterapia e la Parola dell’accompagnamento spirituale /5

by Mauro 26. giugno 2015 11:48

    Riprendiamo la rassegna volta ad approfondire la linea di confine e l’integrazione tra accompagnamento spirituale e percorso psicoterapico. Concludevamo l’ultimo post cogliendo che in ambedue i percorsi la relazione, quella con la maiuscola, fa da ponte su cui fare scorrere il dono della parola e la reciproca accoglienza. Relazione che crea le condizioni favorevoli per il cambiamento o, meglio, per il naturale fluire della vita.

             Soffermandoci, ora, sulla natura del percorso spirituale notiamo che l’accompagnatore fa discernimento al fine di favorire l’ascolto e l’intimità spirituale, cioè il dialogo personale con Dio e la risonanza interiore frutto dell’azione dello Spirito Santo.

            Premessa da fare è che l’azione precipua dello Spirito Santo è quella di generare alla figliolanza divina. L’espressione paolina “figli adottivi” in realtà non rende efficacemente quello che accade nell’essere generati dallo Spirito, più che “adottato” in lingua italiana bisognerebbe utilizzarsi il termine “rinato”. Inizia, infatti, una nuova creazione, nasce l’uomo spirituale che ha lo stesso pensiero di Cristo come ci ricorda san Paolo (1Cor 2,14-16), 

          L’essere tratti dalle acque per mezzo del Battesimo mostra plasticamente questa rigenerazione a partire dalla quale il cristiano può rivolgersi a Dio chiamandolo Padre. Inizia, cioè, una relazione verticale che offre all’uomo una elevazione, la capacità di volgersi in alto senza rimanere schiacciati dall’orizzonte terreno. È verticale l’essere umano che non si appoggia a destra e a manca ma si sente sostenuto da Dio, è verticale chi rimane stabile malgrado le impetuosità della vita, è verticale chi coltiva un dialogo profondo senza lasciarsi portare ed incuriosire dalle dicerie di turno come se il godimento della vita dipendesse dalle parole carpite dagli umani. In sintesi è verticale l’uomo che, nella sua fragilità, sperimenta la tenerezza del Padre e sa che in Lui può trovare soluzione e risposta per fare fronte alle difficoltà della vita.

           La nuova creatura ha un suggeritore, lo Spirito Santo che, avvocato presso il Padre, si fa presente con “mormorio di vento leggero” (1Re 19, 12) al fine di rivelare la strada, attendendo e mai forzando, la risposta dell’uomo.

           Chi non entra in questo rapporto di figliolanza si sente orfano, mancante di un sostegno fondante, è la creatura che mantiene un vuoto interiore e cerca di riempirlo con tanti espedienti: l’apparenza, il potere, l’avere, il piacere. Tali surrogati, però, non offrono appagamento e, in definitiva, accrescono il senso di vuoto e di smarrimento interiore. Il perché di questa resistenza sarebbe da ricondursi, il più delle volte, all’orgoglio umano che vorrebbe fare della creatura un essere autosufficiente. Si pensi alle forme di delirio onnipotente tipiche del nostro tempo quando l’essere umano pretende di controllare i tratti somatici del nascituro o rimandare all’adolescenza la decisione “libera” della propria identità di genere come se questi non fossero frutto del “calcolo” umano.

         Scaturisce, dalla esperienza di figliolanza, la relazione dialogica con il Creatore propria della preghiera. Lo Spirito agisce creando una risonanza interiore, significa che la persona è resa capace di Dio, tempio vivo della Sua presenza. I primi cristiani sono stati derisi proprio per questo Annuncio in quanto strettamente correlato alla Resurrezione di Cristo: se Lui è risorto anche noi lo siamo con i nostri corpi, divenuti custodi del Corpo del Signore.

           Un aspetto ulteriore di questa rinascita è l’incorporazione alla Chiesa: il cristiano prega ed agisce non più a titolo personale ma come membro del Corpo di Cristo. L’azione dello Spirito apre alla comunione per cui ciascuno si sente parte e custode dell’altro, l’individuo diventa persona e cioè aperto alla relazione e non più chiuso in se stesso. Questa dinamica procura discernimento, capacità di comprensione rispetto alle scelte e alle vie da percorrere per testimoniare, con la propria vita, la Gloria di Dio. Il non appartenersi di cui ci parla san Paolo è un appartenere l’uno all’altro, proprio perché “possesso di Cristo”.

          Mentre lo Spirito genera alla comunione, il tentatore insinua menzogna e divisione. La bugia è divisione proprio perché separa da Dio che è verità e, di conseguenza, allontana la creatura dalla sua vera identità: la figliolanza divina. La comunione, piuttosto, si traduce in testimonianza di vita, desiderio di Bene malgrado le avversità e la persecuzione. La vita cristiana mossa dallo Spirito si caratterizza, infatti, per il perdono e la misericordia. Papa Francesco in una sua riflessione, lo scorso aprile, riferendosi a chi rinasce dallo Spirito si esprimeva con queste parole: «ha la grazia dell’unità e dell’armonia. Egli è l’unico che può darci l’armonia, perché Lui è anche l’armonia fra il Padre e il Figlio». Quest’espressione è davvero significativa proprio perché l’armonia ci rimanda ad un dialogo a tutto tondo, con se stessi e con gli altri, in cui si è permeati dallo Spirito.

            Comunione ed armonia vanno di pari passo, tuttavia il termine “armonia” potrebbe essere equivocato nel nostro tempo in cui si propagano scuole di “pensiero fusionale”, ove il rapporto con il divino è inteso come un’armonia cosmica in cui immergersi per avere quiete. La metafora della bambola di sale che si scioglie entrando nel mare che la attrae, utilizzata per esprimere il rapporto con il divino in realtà trae in inganno, confonde l’orizzonte di senso e la veridicità del cammino cristiano.

                L’esperienza cristiana è sempre relazione dialogica con l’Altro e non spersonalizzazione, per quanto lo Spirito Santo venga a creare sinergia e comunione la creatura non scompare mai, anche nelle più alte vette di santità la persona rimane se stessa, di fronte a Dio. Ricorda san Paolo che un giorno al compimento dei tempi vedremo il Signore “faccia a faccia”, così viene descritto l’incontro in cui c’è sempre un Io ed un Tu.

              La fede indica questa distanza relazionale, noi non coincidiamo con Dio ma c’è sempre uno spazio che separa, un’attesa che è relazione e non vuoto interiore, una ricerca che è già un gustare ciò che avrà pieno compimento nel Regno del Cielo. Tale precisazione è quanto mai necessaria oggi, tempo in cui l’uomo cerca di “possedere” Dio attraverso una religione fatta di devozionismo, ricerca di sensazioni speciali o rivelazioni private. Si crea, così, una religione fatta di regolette, pie pratiche che vorrebbero piegare il Signore alle proprie richieste o, comunque, vedere la sua presenza continuamente attraverso prove tangibili (segni miracolistici) insinuando la tentazione di essere i detentori della formula di vicinanza a Dio. È così che all’interno della Chiesa i vari gruppi alimentano divisioni e contrapposizioni, la rivalità propria di chi compete anziché entrare nella comunione con l’altro.

                   L’essere rigenerati in Cristo comporta, piuttosto, una sequela quotidiana, un cammino mai definitivo, mai compiuto del tutto. La nostalgia di Dio è ricerca, per sé e per l’umanità distante, mai intimistica, il cristiano sente la responsabilità dell’altro, non può restare indifferente o giudicante verso chi misconosce Cristo. Certo sembrerebbe più faticosa questa prospettiva perché toglie appoggi e consolazioni di un momento, ma è quella che educa ad una relazione autentica e piena con il Signore.

                  È per questo che il cammino spirituale è un processo di continua conversione perché il discepolo non è esente dal peccato, piuttosto procede in una graduale consegna a Dio frutto della rinnovata misericordia che Lui gli offre dopo le ripetute cadute.

                    Senza esperienza di continua misericordia, pertanto, non c’è via spirituale, la segnaletica di riferimento è proprio il continuo perdono che il Signore offre alla sua creatura. È questa esperienza a generare un cuore grato ben differente dal cuore irrigidito dalla pretesa di essere perfetti.

                Qualcuno potrebbe obiettare pensando che l’ascetica è una crescita nella via di perfezione, ciò rimane vero ma nel senso che il cammino di santità comporta un essere sempre più consapevoli della propria fragilità e  del proprio bisogno di Dio, per mantenersi nella Via. 

                    Il cristianesimo, in definitiva, è da intendersi come via di perfezione e non di perfezionismo, non è uno sforzo umano per aderire ad una idealizzazione perfetta di sé. Questa precomprensione porterebbe ad una elevata rigidità verso se stessi e gli altri, si creerebbe una religione senza fede, cioè senza fiducia nella opera misericordiosa di Dio, senza dialogo con il Creatore ma solo con se stessi.

 

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